È vero, l’Occidente si è coperto storicamente di innumerevoli misfatti (di cui il colonialismo costituisce l’emblema), e spesso ha tentato di glorificarli. Però l’Occidente stesso, più di qualsiasi altra civiltà, ha saputo criticare se stesso e denunciare quei misfatti.
Ai miei occhi ciò è motivo di orgoglio quasi etnocentrico, anche se mi rendo conto che stabilire come criterio per valutare una civiltà quello della sua capacità autocritica rientra interamente nella nostra civiltà e non può avere pretesa universalistica.
All’origine della modernità c’è Machiavelli, esperto dell’arte della guerra e grande figura tragica (propone correttivi, non utopie!), che raccomanda al principe (Il Principe, 1532) perfino di eliminare i propri nemici, se non può indebolirli: la stabilità politica, la sopravvivenza dello stato – per consolidare un ordine sociale – giustifica qualsiasi mezzo (la guerra è qui il modello della politica, dove chi perde non ha salvezza).
Ma c’è anche Erasmo, per il quale (Querela pacis, 1517) una pace ingiusta è meno dannosa di una guerra giusta. Ora queste due posizioni le ritroviamo interamente nell’opera di Shakespeare, con un passaggio da una visione epico- eroica alla parodia, come ci mostra la studiosa Maria Valentini in un bel saggio sulla Guerra di Shakespeare, compreso nei Linguaggi della guerra, a cura di Valerio Magrelli (Spartaco 2009). Nei drammi storici della prima tetralogia (Enrico VI parte 1, 2, 3 e Riccardo III) il drammaturgo sostiene la causa patriottica dei Tudor, in quelli della seconda (Riccardo II, Enrico IV parte 1 e 2 ed Enrico V) abbiamo Falstaff che, dopo essersi finto morto in battaglia, sberleffa l’onore (“Cos’è l’onore? Aria”), al contrario del superguerriero Hotspur; e infine Troilo e Cressida, che decostruisce l’epica omerica (nel 1603, quando sale al trono Giacomo I, sovrano tendenzialmente pacifista).
Impressionante come nell’Enrico IV il re morente suggerisca al figlio di far dimenticare al popolo l’usurpazione che grava sulla corona dichiarando guerra a un paese straniero! Enrico V tematizza soprattutto la questione della guerra giusta, dunque autorizzata da Dio, di san Agostino (De civitate Dei) e san Tommaso (Summa theologiae). La guerra diventa “giusta” in quanto espressione di un volere divino perché fatta per riparare a una ingiustizia e per ristabilire pace ed equità (e anche perciò obbligatoriamente “giusta” anche nella forma, nella sua condotta, senza violenza gratuita e con misericordia – o se si preferisce con misura – senza uccidere i civili né i prigionieri, etc.).
Ma scopriamo che l’arcivescovo di Canterbury benedice la guerra di Henry solo per opportunismo, e d’altra parte il conflitto con i francesi si macchierà di stupri e massacri insensati. Ma la scena più commovente della tragedia è quando il duca di Borgogna, dopo la pacificazione finale tra le parti, dirà: “al cospetto di tale reale adunata, / chiedo per quale ostacolo o impedimento / la pace, ignuda, povera e martoriata, /la tenera nutrice di arti, raccolti, e fecondità gioiosa / non debba nel più bel giardino del mondo, la nostra Francia ferace, mostrar le sue liete fattezze”. E ancora: “i nostri figli, noi stessi / abbiam perduto, o non troviamo il tempo di coltivare, /le scienze che dovrebbero ornare il nostro paese, / ma veniam su come selvaggi – come soldati /che non fan nulla se non pensare al sangue – torvi, imprecanti e malvestiti, /e imbarbariti in modo innaturale”.
In Troilo e Cressida mi sembra definitivo il commento del dissacratore Tersite, che parlando con Achille e Patroclo, così definisce il “pretesto” della guerra di Troia: “Che truffa, che furfanteria, che speculazione! E tutto per una puttana e per un cornuto”. La tragedia, che somiglia spesso a una commedia, ha al proprio centro – come giustamente annota Maria Valentini – la corruzione, il disfacimento (il trionfo del caso), l’infezione, una decomposizione morale e metafisica. Ma va segnalato anche il discorso di Amleto nel IV atto: “”dormo, e a mia vergogna / qui ventimila uomini s’accostano,” per una fantasia o per uno scherzo / della fama, alla tomba come a un letto”. / per un palmo di terra”(precedentemente aveva detto “anche per un guscio d’uovo”).
Shakespeare irenico e pacifista? Sarebbe anacronistico affermarlo. Però la sua opera è attraversata dall’intera gamma delle posizioni sulla guerra: da una parte unico mezzo per correggere una ingiustizia e ristabilire un ordine infranto, dall’altra come orrore perlopiù immotivato, pretestuoso, qualcosa di innaturale che imbarbarisce gli esseri umani (riecheggiando il pensiero di umanisti come Erasmo e Tommaso Moro).
Il lettore, a proposito della guerra, potrà sentirsi Amleto e il duca di Borgogna che guardano i combattimenti con scetticismo e orrore, o anche parteggiare per qualche sovrano impegnato nella sua giusta guerra per ristabilire il diritto, però da Shakespeare si ricava la convinzione che ogni cosa può essere vista da molte prospettive, e proprio questo è alla base del dialogo. Ognuno di noi ha oscillato tra Hotspur (sincero ma insopportabilmente retorico) e Falstaff (arguto epperò amorale), forse con una lieve propensione per quest’ultimo.
Ora, dopo i 60 milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale l’umanità ha definitivamente perduto l’innocenza. La violenza, implicata nella modernità stessa (si pensi solo alle tante e sacrosante rivoluzioni che l’hanno scandita) può ancora rientrare in un orizzonte civile democratico? Sono cresciuto con il mito della Resistenza, da cui nasce la nostra repubblica (solo perciò esito a invitare alla resa chi intende resistere avendo una mattina “trovato l’invasor”!). Ho appoggiato qualsiasi lotta di liberazione, ad ogni latitudine (perfino il Fronte Belisario del Sahara, di cui continuo a sapere pochissimo), e avrei disprezzato chiunque avesse consigliato ai vietcong di arrendersi, soltanto per ridurre il numero di morti (ecco, mi piacerebbe che quanti aderiscono, legittimamente, a un pacifismo integrale, ricordassero più spesso questa loro “educazione sentimentale”).
Però oggi solo a sentir parlare di “violenza emancipativa” vengono i brividi. Forse l’interrogativo centrale resta questo, anche in termini machiavellici: se non resisti ai violenti e agli “scellerati”, questi prevarranno: ma se li vinci con mezzi “scellerati”, chi davvero vince alla fine? Nei personaggi di Shakespeare, terribili e ridicoli, tragici e comici, codardi ed eroici, sospesi tra saggezza e follia, si rispecchiano i nostri dilemmi senza vera soluzione.
Filippo La Porta
[ il Riformista ]