L’ operazione antiterrorismo messa in atto a Foggia segna un momento importante nel contrasto all’estremismo jihadista in Italia. Il blitz giunge al culmine di un’inchiesta avviata dalla Digos di Bari, che da tempo stava monitorando un piccolo luogo di culto (abusivo) denominato “Al Dawa”, presso la stazione di Foggia – regolarmente frequentato da due militanti jihadisti in seguito arrestati, tra cui un ex foreign fighter ceceno. Ad ogni modo, le attività di militanza non riguardavano solo un circolo di adulti. Come emerso dalle indagini, infatti, Abdel Rahman Mohy – figura chiave di Al Dawa – si era servito del materiale propagandistico dello Stato Islamico per tenere lezioni a piccoli gruppi di bambini, nel tentativo di iniziarli al credo jihadista: ad esempio, insegnava che era legittimo odiare i “miscredenti”, e aveva spinto alcuni di loro a prestare il giuramento di fedeltà (bay‘a) ad Abu Bakr al-Baghdadi.
Questo caso – in cui una figura di spicco del centro culturale foggiano ha tentato di radicalizzare soggetti di minore età tramite seminari di studio – riporta l’attenzione sulla tematica dell’indottrinamento di bambini e adolescenti, nonché sui luoghi (fisici o virtuali) in cui avviene tale processo. Ci si chiede come l’episodio si collochi nel panorama jihadista italiano e, soprattutto, se in passato vi siano stati dei precedenti.
Negli ultimi anni, in linea con le tendenze osservate in numerosi altri Paesi europei, l’Italia ha assistito all’ascesa di una scena jihadista autoctona, spesso caratterizzata da una diffusa presenza sul web – ad esempio tramite blog o profili su piattaforme social, impiegati per creare una rete di contatti ideologicamente affini, diffondere e fruire di propaganda estremista. Inoltre, questa scena autoctona ha complessivamente mostrato scarsi legami con le moschee e le associazioni culturali presenti sul territorio, che in molti casi rappresentano un ambiente ostile per i militanti. Infatti, talvolta – anche quando i simpatizzanti jihadisti frequentano luoghi di culto – la dirigenza della struttura non è al corrente delle loro vedute estremiste. Analogamente, in varie occasioni, alcuni soggetti radicali entrano in contatto con altri estremisti in moschea, ma le eventuali attività di indottrinamento e/o pianificazione di atti violenti avvengono altrove, in contesti più ristretti.
Tuttavia, in questo quadro generale si rilevano alcune eccezioni importanti – ossia casi in cui figure di spicco orbitanti attorno o addirittura occupanti posizioni dirigenziali in seno a determinati luoghi di culto sono risultate coinvolte in attività di proselitismo e reclutamento jihadista. Attività che, in alcuni casi, possono riguardare individui giovanissimi.
In Italia, i casi noti di “scuole del jihad” miranti all’indottrinamento di bambini e ragazzi sono pochi. A questo riguardo, occorre però segnalare un paio di episodi. Il primo (e forse più significativo) si è verificato a Ponte Felcino, frazione di Perugia, quando nel luglio del 2007 è stata smantellata una cellula terroristica gravitante attorno alla moschea locale, “Al Nour”. Il gruppo aveva infatti approntato una sorta di “scuola di terrorismo”, per formare militanti jihadisti, in grado di operare singolarmente o in seno a una cellula. La figura chiave di questo sodalizio era il marocchino Mostafa El Korchi, imam di Al Nour, un personaggio carismatico, in grado di guadagnare la fiducia della comunità islamica locale e di porsi come suo punto di riferimento. Di fatto, El Korchi – grazie alle sue capacità e alla propria posizione – era il “catalizzatore” del microcosmo jihadista di Ponte Felcino, capace di suggestionare gli individui più fragili dal punto di vista psicologico e/o con gravi deficit sul piano culturale, nonché di comprendere chi fosse più ricettivo al messaggio estremista.
Come le varie intercettazioni ambientali all’intero della moschea hanno mostrato, El Korchi riservava le parole e attività più estremiste a una ristretta cerchia di accoliti. Alle attività di addestramento vero e proprio – tra cui la pratica di arti marziali – si affiancavano il proselitismo e la diffusione di messaggi di odio. A tal fine, El Korchi visionava, scaricava da Internet e mostrava ai suoi fedelissimi materiale jihadista di vario tipo: contenuti propagandistici, ma anche istruzioni per l’esecuzione di attentati e il combattimento, per la preparazione di esplosivi e veleni, nonché per non essere intercettato. Lo scopo ultimo della cellula era quello di radicalizzare l’intera comunità locale, unificando tutti i luoghi di culto della zona, e anche opponendosi alle altre figure del panorama religioso perugino, ritenute troppo accomodanti. Inoltre, l’imam spingeva i fedeli a recarsi in Iraq per combattere il jihad contro i “miscredenti” – e, difatti, vari foreign fighters recatisi in Afghanistan o Iraq avevano gravitato attorno a questa moschea prima della partenza. Tra questi vi è Mounir Ben Abdelaziz Ouechtati, che, dal teatro di conflitto, è rimasto in assiduo contatto con El Korchi. La scorsa estate, poi, è stato espulso un predicatore attivo a Perugia e Corciano, in contatto sempre con El Korchi.
Un elemento significativo è il fatto che le attività di indottrinamento fossero dirette anche ad alcunibambini. In primis durante le lezioni di lingua e cultura araba per bambini tenute da El Korchi, e durante le quali quest’ultimo propagandava idee estremiste. Ad esempio, in un’occasione, il predicatore-insegnante ha esortato gli alunni ad aggredire i coetanei italiani, ritenuti infedeli. In secondo luogo, l’imam ha tentato di esporre anche i propri (giovanissimi) figli all’ideologia jihadista anche durante gli “incontri ristretti” cui partecipavano gli altri indagati. In vari casi, infatti, ha visionato in presenza dei bambini (e illustrato) diversi filmati in cui si celebrava il jihad, nonché alcuni video che riprendevano l’esecuzione di un gruppo di poliziotti iracheni e un attentato ai danni di mezzi militari statunitensi in Iraq. “Ci sarà un giorno del giudizio in cui tutti i musulmani andranno in paradiso, mentre gli italiani miscredenti andranno all’inferno e bruceranno”, tuonava davanti ai bambini l’imam della “scuola di terrorismo”.
Un più recente episodio degno di nota riguarda la cellula operante presso Merano e Bolzano, smantellata nel novembre del 2015. Si trattava di un importante nodo appartenente a una ben più vasta rete transazionale, denominata “Rawti Shax” e facente capo al leader jihadista curdo Najmaddin Faraj Ahmad (alias Mullah Krekar) – fondatore del gruppo islamista radicale Ansar al-Islam, e attualmente detenuto in Norvegia. Le operazioni antiterrorismo non si sono limitate al cluster altoatesino in Italia, ma hanno anche investito numerosi altri Paesi europei, tra cui la Norvegia, il Regno Unito e la Finlandia. 17 individui sono risultati destinatari di un mandato di arresto, 7 dei quali in Italia, per l’appunto in Alto Adige. I componenti della rete terroristica, residenti in differenti Paesi, si mantenevano in contatto online, mentre Mullah Krekar coordinava le attività dal carcere.
Il gruppo altoatesino rappresentava uno snodo cruciale per il reclutamento di foreign fighters e di potenziali attentatori, con l’obiettivo di combattere ed eseguire attacchi in Medio Oriente e nel Nord Europa. Tra le modalità di azione, si contemplava anche il rapimento di diplomatici norvegesi, nella speranza che ciò potesse portare al rilascio del leader incarcerato. Il fulcro della cellula italiana era rappresentata da Abdul Rahman Nauroz – dedito al traffico di migranti e al reclutamento di militanti –, che ha facilitato il viaggio in Siria del foreign fighter Eldin Hodza (poi rientrato in Italia). Il reclutamento di nuovi adepti avveniva con due modalità: innanzitutto sul web e, in secondo luogo, anche offline, mediante le lezioni tenute da Nauroz nel proprio appartamento. I membri della cerchia, inoltre, erano tenuti a seguire un percorso di formazione jihadista, iscrivendosi alla scuola telematica “Ibnu Taimiyya” – supervisionata dal Mullah Krekar –, seguendo i vari corsi (suddivisi in livelli differenziati, con regole di propedeuticità) e superando i relativi esami, con il supporto dell’insegnante Abdullah Salih Ali (detto “mamosta Kawa”). Oltre alle lezioni volte al reclutamento – tenute da Nauroz – e all’università online, vi erano infine altri tipi di attività formative, questa volta rivolte ai bambini. Il gruppo organizzava infatti una sorta di “scuola di odio” per i giovanissimi, come accaduto ad esempio presso l’abitazione di Hasan Samal Jalal, “allievo” di Nauroz. Qui, a bambini e ragazzini venivano impartite lezioni su come uccidere il nemico, ed erano mostrati filmati di esecuzioni ad opera dei miliziani dello Stato Islamico – visti come modelli da imitare per promuovere la causa jihadista. Ancora una volta, individui di minore età divenivano obiettivi privilegiatidell’indottrinamento estremista.
Se, apparentemente, questi sono i soli due casi che spiccano nel panorama italiano, a livello europeo si sono verificati svariate situazioni di questo tipo, in cui una o più figure carismatiche hanno tentato di radicalizzare e mobilitare soggetti minorenni. Un recente esempio è fornito da Umar Haque, operante nella scena londinese e giudicato colpevole di una serie di reati legati al terrorismo. L’uomo – durante il periodo di insegnamento nella scuola islamica “Lantern of Knowledge” e nella madrasa sita presso la moschea di Ripple Road – ha tentato di radicalizzare più di 100 ragazzini, con l’obiettivo di dar vita a un “esercito” di almeno 300 soldati.
Le indagini sono state avviate nell’aprile del 2016, quando Haque stava per imbarcarsi su un volo per Istanbul e, dopo essere stato fermato, sono state effettuare delle ricerche sul suo cellulare. Inizialmente, è emerso che l’uomo stava pianificando degli attentati nella capitale britannica. Solo successivamente sono affiorate le attività di proselitismo dirette agli alunni, costretti a visionare filmati di esecuzioni o attacchi terroristici, nonché a mettere in atto un gioco di ruolo e mimare attentati ai danni di agenti di polizia.