venerdì, 29 Novembre 2024

Maradona, il mito ribelle che donò la felicità alla mia infanzia

Roberto Saviano [ la Repubblica ]

Non pensavo fosse mortale, invece mi accorgo solo oggi che era un uomo e non il Dio nel cui culto, da ragazzino vivevo (sono del ’79, avevo 7 anni quando arrivò il primo scudetto e 10 quando arrivò il secondo). Ora, come faccio a spiegare ai non-napoletani che cosa è stato Diego Armando Maradona  ? L’insieme di tutto il meglio e il peggio che la mia terra ha generato. Come faccio a spiegare che, esattamente come un dio, i vizi, gli errori, i crimini commessi erano solo l’ombra che rendeva il Dio più luminoso ancora? Esattamente come gli dei, i cui vizi li rendevano così simili a noi eppure nella narrazione, nella loro crudeltà, nel loro errore, stagliavano ancora più grande il loro pregio, la loro qualità. 

Diego Armando Maradona è tutto in quel bambino che sta giocando nel fango e quando gli chiedono cosa vorrebbe fare, risponde: giocare un mondiale e vincerlo. Come posso spiegare che Maradona è stato il riscatto? Il riscatto, sì. Il riscatto perché una squadra del Sud non aveva mai vinto uno scudetto, una squadra del Sud non aveva mai vinto una Coppa Uefa, una squadra del Sud non era mai stata al centro dell’attenzione mondiale. Con Maradona ci temevano in nome di una abilità non di una minaccia o un pregiudizio, con Maradona c’era qualcuno che non ingannava, era li a mantenere unico una promessa di felicità che tutti invece avevano tradito. Diego era lì, non tradiva. Aveva deciso lui, il più grande calciatore della terra, di non giocare nella Juventus. E già questo era per noi motivo di indissolubile legame. Anzi, a Torino, Maradona compirà la vendetta che i napoletani aspettavano da una vita.

Morto Maradona, fumogeni e fuochi d’artificio per ricordarlo: la folla sotto il murale di È il 3 a 1 della vittoria fuori casa a Torino contro la Juve (1986), è la punizione dell’1 a 0 al San Paolo (1985), è vedere tutti gli operai campani che lavoravano al Nord e gli emigranti napoletani, sentire che la squadra in quel momento interpretava la loro voglia di vittoria.  Diego era perfetto per Napoli, era un argentino-napoletano, sembrava costruito per far innamorare questo popolo.

Correva a giocare in un campo di patate ad Acerra in uno dei suoi continui gesti di generosità. Nell’85 il padre di un ragazzino che ha bisogno di un’operazione per salvarsi la vita chiede a Maradona di poter giocare per raccogliere soldi ad Acerra. Ferlaino, il presidente, non acconsente alla richiesta e Maradona paga una clausola di 12 milioni di lire e gioca in questo campo di patate, fangoso, dicendo: “Si fottessero i Lloyd di Londra, io gioco lo stesso”. Diego era un immortale e come chi è immortale è costretto a vivere sistematicamente di espedienti.

Goicoechea in Spagna gli fa un’entrata assurda sulle gambe e gliele spezza. Lo considerano un giocatore finito. Il Barcellona lo dà via al Napoli, le altre squadre sono diffidenti, il Napoli paga una cifra immensa per i tempi e Maradona rinasce. Il doping, il vizio in cui lui cade, non gli servì a migliorare le prestazioni, anzi la coca fu un tormento e una dannazione. Diventa immediatamente un dio, un dio perché vince contro le squadre che impedivano sempre la vittoria, un dio perché non diventa lo sponsor delle aziende che in quel momento hanno tutti i più grandi marchi. Lui rappresenterà la Puma mentre tutti gli altri erano Adidas e Nike.

E poi è impossibile raccontare cosa è stato Maradona. Maradona era il calcio e Maradona trascendeva il calcio, come tutto ciò che diventa simbolo; schiacciato completamente da una vita in cui era assediato, dove tutti chiedevano cose, cose, cose… A quel punto lui entra nel vortice. La Camorra ne comprende le debolezze, gli fornisce il veleno, la coca, le escort, lo tiene sotto estorsione. Il gossip vuole qualsiasi informazione su di lui e però c’è qualcosa che lo salva sempre: la voglia di giocare a calcio, un corpo incomprensibilmente unico, che nonostante i vizi, il poco allenamento, quando entra in campo non cade mai, non si ferma.

Maradona non ha nulla a che fare con i calciatori del presente, fragili, che come vengono toccati vanno giù, che cercano la punizione; diverso anche dalla fisicità da body builder che ormai costruisce i calciatori. Maradona non era un calciatore moderno, aveva la fisicità dei grandi calciatori del passato, del connazionale Sivori. Maradona giovane poteva assomigliare più a Garrincha che a Van Basten o Gullit.
  
Maradona fu imperdonabile nel suo cedere alla frequentazione di boss e trafficanti, con agenti come Guillermo Coppola, ma era anche un uomo solo, il più solo del mondo, solo con quel talento che sempre lo salvava e sempre lo faceva riconciliare con la sua gente. Cosa è stato per me Maradona? Beh, la prima risposta è: quello che starà provando mio padre. Non l’ho neanche chiamato. Il dolore che mio padre starà provando è infinito, come se fosse morto suo padre, come se fosse morto suo figlio, come se fosse morto l’amico più vicino. Maradona l’ha fatto stare bene. Maradona era finalmente qualcosa che non lo faceva sentire sconfitto, inefficiente, come ci si sentiva (e spesso ci si sente ancora) quando si nasce in una delle province più difficili del sud Italia.  Ecco cos’è Maradona per me. È stato formazione. Provate a chiedere a tutti quei ragazzi che marinavano la scuola per andare a vedere i suoi allenamenti il mercoledì. 

Cos’è stato Maradona? E chi lo dimentica. Stadio San Paolo, Italia-Argentina. I tifosi napoletani tifano ovviamente per l’Italia, applaudono quando c’è il gol di Schillaci sull’1 a 0. Ma dopo il pareggio di Caniggia, la parte non napoletana del tifo inizia a insultare Maradona, null’altro che fischiare e insultarlo. Ma la curva non poteva permettere che si offendesse Maradona e così le aste smisero di sventolare il tricolore. Si intonò solo una parola: “Diego. Diego”. È il mondiale che gli fu portato via, Italia ’90, regalando un rigore inesistente alla Germania. Era un mondiale che stava vincendo da solo. Come vinse da solo quello in Messico e come quello degli Stati Uniti quando stava portando l’Argentina a grandi risultati. Si tifava Maradona, si difendeva Maradona perché in quel momento la nazione era Maradona, la propria patria era Maradona. Non c’entravano più i confini geografici, non la maglietta, la lingua. Contava il fatto che ti identificavi nell’uomo che ti aveva fatto gioire, che ti aveva fatto vincere, e che l’aveva fatto anche con correttezza. 

Sì, la mano di Dio: la mano di Dio vista come una grande scorrettezza sportiva… La grande provocazione di Diego alla guerra inglese delle Falkland, ma soprattutto il dileggio. Non potevo certo perdermi quel gol per qualche centimetro che Dio non mi ha dato. Nella stessa partita, la furberia del gol fatto con la mano e il genio assoluto del secondo gol magnifico, unico.  Maradona non poteva che essere grande a Napoli, non nonostante Napoli, ma proprio a Napoli e proprio perché aveva quello spirito di riscatto e di slancio, di melodramma, che lo faceva riconoscere figlio di quella terra.

Maradona, che era indisciplinato ovunque, in campo era disciplinatissimo. Maradona rispettò sempre il gioco del calcio, e quindi gli avversari. Giocava sempre, non cercava l’infortunio, non cercava di fuggire dalla partita, non cercava lo scontro. Il gol più bello che sia stato realizzato? Quello a Città del Messico, con la maglia dell’Argentina.  Cosa significa rispettare l’arte che si sta praticando? Poteva farsi toccare da qualsiasi difensore, prendere una punizione, o al contrario i difensori potevano buttarlo giù e invece Maradona, uno a uno li salta, impedendo persino al cronista di pronunciare i nomi dei difensori che sta scartando, perché va troppo veloce. 

Veloce ed estroso, senza mai guardare la palla. La forza di Maradona era questa, riuscire a tenere la palla incollata tenendo lo sguardo alto, cosa che lo rendeva elegantissimo. Ma come posso spiegare ai non napoletani che Maradona aveva sposato completamente lo spirito della città e dei suoi abitanti… Era un’alleanza naturale, un ritrovarsi. Quando arrivò allo stadio per la prima volta, il San Paolo era pieno, come se ci fosse stata una finale. Non accadrà mai più a nessun giocatore, in nessun’altra parte d’Europa una cosa del genere. Un intero stadio pieno. 
 
E ora che non c’è più, sento di essere davvero invecchiato di colpo. Maradona è stato la mia infanzia. È stato la fortuna di poter avere un cugino juventino esattamente quando nel Napoli c’era Diego. Immaginate la soddisfazione, il godimento. 

Maradona è stato il sogno che dissipava tutto il peso che vedevo su mio padre, su mio nonno Stefano, sui miei zii; tutta la loro fatica, tutto l’impegno, la difficoltà svaniva nel vedere quest’uomo giocare. E giocare sempre con un piglio ribelle. Anche la sua infatuazione per i dittatori marxisti faceva parte del suo, come definirlo?, “delirio ribellistico”. Diego Armando Maradona è stato un uomo che non ha messo mai il suo talento al servizio di qualcosa. L’uomo si è venduto, il suo talento mai. Ed è il suo talento che aveva donato a Napoli. Poteva andare ovunque e invece è stato nella città che lo ha reso Dio e lo ha difeso. 

Maradona, in qualche modo, voleva che non vincesse la negoziazione dello sport, ma lo sport stesso, non la strategia dello sport ma l’abilità, la capacità, voleva che il calcio rimanesse calcio. Maradona come tutti voleva guadagnare e star bene, ma in vita ha dovuto subire un’infinita quantità di ingiustizie perché non voleva partecipare alla strategia degli scambi, alla furbizia di uno sport determinato dagli accordi. E non perché fosse un giusto, ma perché voleva giocare a pallone, voleva che solo il pallone contasse. 

E come potrò spiegare a chi non è di Napoli cosa è stato Maradona? Non posso spiegarlo. Stavolta il dolore ce lo teniamo noi e solo noi, così grande… perché solo noi l’abbiamo avuto così vicino, così unico, così ferito, così spavaldo, così folle, così in grado di interpretare la gioia di tanti facendolo in un gioco, in un gioco semplice che tutti possono capire e che tutti possono giocare.  Una palla in mezzo al campo, due porte, l’intelligenza, il talento, la lealtà, la bravura. Tutto quello che è fuori dal campo lo potevi ottenere grazie a mediazione, con compromessi, ma in campo no.

In campo le regole di fuori non valevano, altrove avevi bisogno d’aiuto, ma in campo no: in campo con le tue forze potevi farcela. La magia di Maradona è stata questa, far sognare tutti e far pensare a tutti che il sogno si può realizzare. Che essere veramente un Dio si può perché quando lo guardavi, quando tifavi, ti faceva sentire immortale. E ora che lui è morto noi ci accorgiamo che Dio, che Diego era mortale. Ci accorgiamo che noi siamo mortali. Con la sua morte, mortali lo siamo diventati tutti. 

Addio Diego ora potrò dire come una leggenda “ho visto Maradona”. Gran parte dei momenti felici della mia infanzia passati con mio padre li devo a te.

Roberto Saviano
[ la Repubblica ]