lunedì, 25 Novembre 2024

MIDTERM 2018. TRUMP SENZA CAMERA

Annalisa Perteghella (ISPI)

Quello che è stato spesso definito come un “referendum” su Trump ha avuto esito negativo per il Presidente. Nelle elezioni di midterm i Repubblicani hanno perso la maggioranza alla Camera, riuscendo però a mantenerla al Senato, dove la geografia elettorale era più ostile per i Democratici. Se è per certi versi fisiologico che il partito del Presidente in carica perda la maggioranza al Congresso durante le elezioni di metà mandato (il contrario è accaduto solo due volte: con Roosevelt nel 1934 e con George W. Bush nel 2002), è anche vero che per il Partito Repubblicano questa sconfitta possa essere interpretata come una bocciatura del metodo Trump. Come leggere questi risultati? Quali scenari si aprono per i prossimi mesi, durante i quali entrambi i partiti si prepareranno al cruciale appuntamento delle elezioni presidenziali del 2020?

 
DOPO IL VOTO: COSA CAMBIA?
La conquista della maggioranza alla Camera può dare nuova linfa ai Democratici, in evidente difficoltà dopo la cocente sconfitta alle elezioni presidenziali del 2016. Sebbene all’interno del partito dell’asinello non sia ancora emerso un candidato in grado di rappresentare il volto e l’anima dei DEM alle presidenziali del 2020, è lecito attendersi che dalle file dei vincitori in queste elezioni possano emergere i candidati più idonei alla corsa alla presidenza.

I Democratici potranno inoltre condurre l’opposizione a Trump da una nuova posizione di forza. Ciò gli permetterà con ogni probabilità di creare commissioni di indagine finalizzate ad aumentare l’accountability di Trump di fronte al Congresso – cosa che i Repubblicani hanno finora mancato di fare, anche sulle questioni più ambigue come gli interessi economici del Presidente all’estero, o le sue dichiarazioni fiscali mai rese pubbliche – che potrebbero nascondere evasione e frode ai danni del Tesoro americano.

Soprattutto, da ora i democratici riusciranno ad opporre un freno più deciso all’agenda legislativa del Presidente, che difficilmente potrà ritentare l’assalto all’ObamaCare, o ottenere il passaggio di riforme ambiziose come la riforma fiscale approvata dal Congresso nel 2017.

Non è chiaro però se lo scenario di un governo diviso potrà contribuire a sanare le profonde fratture all’interno dell’elettorato americano. Gli episodi di violenza che si sono registrati questo mese – i pacchi bomba recapitati a personalità vicine al partito Democratico e la strage nella sinagoga di Pittsburgh, entrambi opera di suprematisti bianchi – hanno contribuito a rafforzare la percezione dell’America come un paese profondamente polarizzato. In questi anni – e non solo a partire dall’elezione di Trump – è infatti aumentata la distanza tra i due partiti e l’identificazione del partito avversario come un nemico.

La difficoltà nel raggiungere un compromesso bipartisan, necessario per l’approvazione di riforme condivise, ha in questi anni di fatto paralizzato l’azione politica del Congresso sulle questioni più urgenti, facendo ricorrere sempre di più i presidenti allo strumento dell’atto esecutivo. Dopo il risultato di queste midterms, è probabile – come del resto accadde anche quando Barack Obama perse la maggioranza al Congresso dopo i suoi primi due anni di mandato – che anche Trump cominci a fare ricorso a questo strumento in maniera ancora più decisa di quanto non abbia fatto sinora per superare le resistenze dell’opposizione.

Ciò che è certo, è che sia per i Democratici che per i Repubblicani si apre ora una fase in cui entrambi saranno costretti ad interrogarsi circa la loro relazione con Trump. Entrambi i partiti dovranno infatti cominciare a ripensare se stessi e il rapporto con il proprio elettorato, cercando di riportare la politica americana sui binari da cui l’azione di disintermediazione tipica dei populismi (il rapporto “diretto” con il popolo), incluso quello di Trump, sembra averla allontanata.

 
 
REPUBBLICANI AL BIVIO
In occasione delle elezioni presidenziali del 2016, l’ascesa di Trump e la sua consacrazione come candidato del Partito Repubblicano avevano portato gli analisti – e gli stessi cittadini americani – a chiedersi se Trump rappresentasse “un incidente” nella storia del Partito, un temporaneo scivolamento verso le posizioni della destra radicale, che avrebbe però successivamente lasciato posto a un “riaggiustamento” e a un ritorno sulle tradizionali posizioni dell’establishment conservatore.

Due anni dopo, il Partito repubblicano appare pressoché completamente piegato sulle posizioni del presidente, sulle istanze che egli rappresenta, incapace di arginarne o mitigarne l’azione, anche quando questa ha effetti potenzialmente destabilizzanti per la coesione sociale. L’ultimo esempio in questo senso è l’assenso concesso dai Repubblicani in Senato alla nomina di Brett Kavenaugh a giudice della Corte di Suprema, voluta e portata avanti energicamente da Trump nonostante la decisione abbia suscitato la rabbia di molti americani, portando migliaia di persone a scendere in piazza come segno di protesta.

Come afferma Mario Del Pero, Trump gode di un ampio sostegno tra gli elettori Repubblicani, in parte perché trovano nella figura del Presidente un medium capace di proiettare un messaggio semplice e unitario; in parte perché il quadro demografico dell’America di oggi – a maggioranza bianca, maschile e non urbana – è uno specchio dell’elettorato trumpiano. Nel lungo termine, però, le cose sembrano destinate a cambiare. I Repubblicani dovranno trovare il modo di adattare il loro messaggio in modo che rifletta l’evoluzione culturale e demografica in atto e che assegnerà un ruolo sempre maggiore alle minoranze.

Il risultato elettorale in parte riflette questa tendenza: esiste una maggioranza di americani che non si riconosce nel messaggio di Trump. Esso rappresenta dunque un incentivo per il Partito repubblicano per cominciare a costruire un’alternativa a Trump interna al Partito.

 
 
L’ECONOMIA (IN CRESCITA)
NON HA AIUTATO TRUMP
“Dopo anni di stagnazione, gli Stati Uniti sono tornati a crescere fortemente. La borsa supera un record dopo l’altro, e dalla mia elezione ha prodotto 7.000 miliardi di nuova ricchezza. La fiducia dei consumatori, delle imprese e dell’industria sono i più alti da decenni.” Con queste parole Trump ha descritto i risultati economici della sua amministrazione al forum di Davos dello scorso gennaio: affermazioni di grande ottimismo e, a una prima lettura, non infondate. Il Pil degli Stati Uniti, infatti, è cresciuto di oltre l’1,5% nel 2016 e, sotto la presidenza Trump, oltre il 2,3% nel 2017, sino a raggiungere picchi come il 4,2% nel secondo semestre dell’anno scorso. Tutto ciò mentre l’inflazione e la disoccupazione registrano tassi relativamente bassi, rispettivamente il 2,3% e il 3,7% alla fine di settembre, con 4 milioni di occupati in più dall’inizio della presidenza del tycoon newyorkese. Eppure, alla luce dei risultati del voto di metà mandato, questi dati – o “record” come lo stesso Trump non esita a presentarli – non sembrano essere bastati a convincere la maggioranza degli elettori americani.

I motivi potrebbero essere molteplici. Innanzitutto, come sottolinea Fabrizio Goria (La Stampa) in questo Fact-Tracker pubblicato da ISPI, dopo il collasso di Lehman Brothers del 2008, è dal 2010 che il Pil USA continua a crescere su base tendenziale: 2,5% nel 2010, 1,6% nel 2011, 2,2% nel 2012, 1,7% nel 2013, 2,6% nel 2014, 2,9% nel 2015. Tutti sotto la presidenza di Barack Obama. Seppure molti elettori non abbiano accesso a questi dati, i media, gli analisti e la stessa opposizione democratica di Trump non hanno mancato di sottolineare in questi mesi che i buoni risultati dell’economia statunitense non possono essere interamente attribuiti all’attuale presidente, in quanto il trend di crescita era già evidente prima della sua elezione. È probabile che, nel crescente trambusto di questi mesi di avvicinamento al voto di midterm, tali avvertimenti non abbiano lasciato del tutto indifferenti gli elettori.

Anche le politiche protezionistiche dell’“America first” inaugurate da Trump potrebbero avere avuto un effetto ambiguo in termini di fiducia dell’elettorato e della stessa business community statunitense sugli effetti a lungo termine delle misure. Secondo diversi analisti, infatti, la politica dei dazi e delle imposte doganali volte a sfavorire l’importazione negli Stati Uniti di merci più competitive e meno costose (e, nelle intenzioni di Trump, stimolare la produzione nazionale), potrebbero nell’arco di alcuni mesi causare un aumento dei costi di produzione che non tutte le imprese statunitensi potranno permettersi senza dover alzare il prezzo finale per i consumatori.

Se fino a oggi le analisi delle ricadute dirette che queste politiche potrebbero avere sui cittadini e sull’intera economia statunitense nel medio periodo sono spesso messe in secondo piano dall’efficacia retorica dello slogan “America first”, è probabile che l’incertezza crescente circa i cambiamenti concreti che le mosse di Trump produrranno nei prossimi anni abbia influenzato il risultato elettorale del 6 novembre. Non vi è dubbio che gli sbalzi della borsa USA di nel mese di ottobre abbiano contribuito ad alimentare l’incertezza, in un Paese in cui l’economia è certamente tornata crescere a livelli molto alti, ma in cui la paura di una nuova recessione è tutt’altro che sopita.

Infine, è importante sottolineare che – anche per tutti quegli elettori per cui i buoni risultati dell’economia USA in questi due anni potevano rappresentare un motivo sufficiente per riconfermare la propria fiducia in Trump – nel corso degli ultimi mesi il dibattito pubblico negli Stati Uniti è stato spesso monopolizzato da temi lontani dalle questioni economiche, quali la “carovana” dei migranti diretta al confine con il Messico (a fronte del quale Trump ha annunciato l’invio di oltre 5.000 soldati), i pacchi bomba diretti a diverse personalità vicine o appartenenti al partito Democratico, e il tema dello ius soli codificato nel 14mo emendamento della costituzione USA, che il presidente ha minacciato di abolire con un decreto esecutivo.

A sorprendere molti osservatori, è il fatto che lo stesso Trump abbia amplificato molto in queste settimane le più divisive tra queste questioni (ovvero lo ius soli e l’invio dei soldati al confine), forse per rivolgersi direttamente al “nocciolo duro” della sua base elettorale più conservatrice, e forse proprio per mettere in secondo piano le fibrillazioni economico-finanziarie del paese nel mese appena trascorso.

 
 
POLITICA ESTERA:
I TANTI FRONTI APERTI
La politica estera rappresenta l’arena in cui l’azione del Presidente USA è soggetta a minori vincoli rispetto all’azione di politica interna. In questi primi due anni di mandato, su alcuni dossier Trump ha agito in maniera discordante rispetto allo stesso parere dei propri consiglieri e segretari. È lecito quindi ipotizzare che anche nei prossimi due anni il Presidente continui ad agire nel nome dell’”America first”, a prescindere dalla maggioranza avversa alla Camera.

Sono molti i fronti che Trump ha aperto in questi due anni e che dovrà provare a chiudere nei rimanenti due. In primo luogo, il negoziato con la Corea del Nord, che dopo lo storico incontro di Singapore tra Donald Trump e Kim Jong Un dello scorso giugno, e la firma di una vaga dichiarazione di intenti, ha dovuto misurarsi nei mesi successivi con le difficoltà pratiche del difficile percorso verso un vero accordo. Rimarrà poi la ricerca di un complesso quanto necessario dialogo con la Russia, che dovrà essere perseguito sullo sfondo delle conclusioni dell’indagine del procuratore Mueller sulla possibile interferenza di Mosca durante la campagna elettorale del 2016: non è un caso che i risultati dell’indagine verranno rivelati dopo l’elezione di midterm, probabilmente già questo mese.

C’è poi il grattacapo mediorientale: avendo messo ben in chiaro di non avere intenzione di riconsiderare il rapporto conl’Arabia Saudita nemmeno alla luce del caso Khashoggi, Trump dovrà trovare un modo per continuare a giustificare questa alleanza di fronte a un Congresso che già negli scorsi mesi ha provato a mettere in discussione alcuni contratti militari per via del ruolo di Riyadh in Yemen. Anche sul fronte del braccio di ferro con Teheran, nei prossimi mesi avremo maggiori indicazioni circa l’effettivo funzionamento – e i reali obiettivi – della politica di “massima pressione”. Le esenzioni concesse sulle importazioni di petrolio iraniano dal Tesoro USA a otto Paesi – tra cui l’Italia – sono valide fino a maggio.

Non è azzardato pensare che Trump utilizzerà questa finestra temporale per cercare di (ri)portare Teheran al tavolo negoziale – questa volta alle sue condizioni. Continuerà inoltre con ogni probabilità la partita su scala globale con la Cina, legata all’altra grande partita globale di questi anni, quella sul commercio internazionale. Gli analisti sembrano concordare sul fatto che i dazi imposti o minacciati da Trump in questi anni abbiano una finalità più politica che economica: vedremo dunque se questa strategia sarà coronata da risultati concreti, o se piuttosto continuerà a venire utilizzata come arma per continuare a mobilitare l’esercito dei “delusi della globalizzazione”.

Infine, a dominare l’agenda di politica estera nei prossimi due anni saranno ancora una volta gli equilibri – e i disequilibri – interni all’Alleanza atlantica. Il prossimo anno ricorrono i settant’anni dalla creazione della NATO e, sebbene all’interno dell’organizzazione si discuta da anni dell’evoluzione della partnership, le pressioni di Trump soprattutto sulla questione della condivisione degli oneri sono da due anni all’ordine del giorno.

CODICE ETICO E LEGALE