La guerra russa all’Ucraina ha innescato una miccia che si chiama “disordine mondiale”. Non conosciamo le caratteristiche di quest’ultimo, ma sappiamo che l’ordine mondiale del dopo-Guerra fredda è finito. Siamo entrati in una terra incognita, in particolare per l’Europa. Vediamo meglio.
La guerra russa all’Ucraina sembra non avere vie di uscita. La Russia e l’Ucraina hanno i mezzi per non perdere, non hanno quelli per vincere. Ogni atto, dell’uno o dell’altro Paese, produce controreazioni, equivalenti e contrarie. Se Putin decidesse di usare l’arma atomica, tale decisione innescherebbe una reazione militare così forte da parte della Nato che lo annienterebbe. La Russia controlla l’11% del territorio ucraino ma il suo controllo è minacciato dai continui sabotaggi ucraini. Le sanzioni economiche alla Russia stanno conducendo alla recessione di quel Paese, ma la Russia ha trovato modi e Paesi per passare attraverso la loro rete.
L’uccisione di civili ucraini (probabilmente tra i 7 e i 10mila, per non parlare degli eccidi di cui si sta venendo a conoscenza) o la distruzione di circa il 40% della capacità energetica ucraina, per via dei bombardamenti indiscriminati russi, hanno aumentato e non fiaccato la determinazione ucraina a combattere. Ben 13,4 milioni di ucraini sono stati costretti a lasciare il loro Paese, ma ciò ha esteso la rete di solidarietà europea nei confronti di quest’ultimo.
Di fronte a questa situazione, non sono mancati i tentativi per trovare una soluzione. Tre giorni fa all’Assemblea generale delle Nazioni Unite è stata votata da 141 Paesi una mozione che chiede alla Russia «di ritirare immediatamente le proprie truppe dal territorio dell’Ucraina» come condizione per aprire un negoziato di pace, ma sette Paesi (Russia, Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Nicaragua, Siria, Mali) hanno votato contro e 32 si sono astenuti (tra cui Cina, India e Pakistan). Il giorno dopo la Cina ha presentato una proposta di Risoluzione della crisi ucraina, ma è difficile che venga accettata.
La Risoluzione chiede che venga rispettata la «sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale di tutti i Paesi» (come se la Russia e l’Ucraina avessero entrambe violato tale principio) oppure chiede di «abbandonare la mentalità della Guerra fredda» in base alla quale «la sicurezza di una regione si ottiene rafforzando o espandendo i blocchi militari» (come se fosse stata la Nato ad invadere o a minacciare la Russia, come recita la più banale narrativa antiamericana). In realtà, ciò che interessa alla Cina è la stabilità dei commerci internazionali, non la risoluzione della guerra in Ucraina. C’è una esigenza diffusa che la guerra debba essere fermata, ma nessuno sa come farlo.
Non sa come farlo l’Europa, che pure la guerra ce l’ha in casa. L’Europa (Unione europea e Regno Unito) si è dimostrata unita nella “reazione” (all’aggressione russa), assai di meno nella “azione” (per una soluzione all’aggressione russa). Sarebbe un errore sottovalutare il ruolo da essa avuto nella difesa dell’integrità territoriale ucraina e della sua sovranità democratica, sarebbe però un errore sopravalutare quel ruolo. In particolare, l’Ue è giunta impreparata al “ritorno della storia”, perché a lungo convinta che quest’ultima fosse finita. Di qui, le divisioni su come uscire dalla guerra. L’asse franco-tedesco persegue la prospettiva del dialogo con la Russia di Putin, una prospettiva ragionevole nel medio periodo (visto che la Russia è vicina di casa nostra) ma assai di meno nel breve periodo (visto che la Russia non vuole “ballare il tango con noi”).
Il blocco dei nove di Bucarest (Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia), che si è riunito pochi giorni fa senza l’Ungheria, persegue la prospettiva della umiliazione militare della Russia di Putin, una prospettiva comprensibile nel breve periodo (vista l’aggressività di quest’ultima) ma assai di meno nel medio periodo (dato che una Russia umiliata costituirebbe una fonte costante di instabilità per l’intero continente). Il punto è che queste due prospettive, entrambe parziali, non hanno un luogo dove ricomporsi democraticamente. Il potere di veto paralizza il Consiglio europeo dei capi di governo, il Parlamento europeo è escluso dalle politiche di sicurezza, l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza è privo di un potere effettivo. Il blocco di Bucarest non ha le risorse (economiche, politiche, culturali) per esercitare un ruolo di leadership all’interno dell’Ue, ma l’asse franco-tedesco (che quelle risorse ce le ha) non può esercitare quel ruolo per via dei suoi egoismi nazionali e delle sue pretese egemoniche. Di conseguenza, la politica di sicurezza continua ad essere decisa all’interno della Nato dove «chi contribuisce di più, conta di più».
Per nostra fortuna, il presidente Biden è un leader democratico che agisce come il capo di un’alleanza delle democrazie, tuttavia la sua prospettiva sulla sicurezza europea riflette necessariamente la visione di Washington . Così, pochi giorni fa, è volato a Kiev e a Varsavia, senza fermarsi a Bruxelles (o a Londra).
Insomma, di fronte ad una guerra che è destinata a durare, l’Ue avrebbe bisogno di superare le sue parzialità. Ci vuole un nuovo balancing act, per sovra-nazionalizzare le politiche della sicurezza e rinazionalizzare quelle di interesse domestico. Bruxelles deve fare ciò che le capitali nazionali non possono fare. E viceversa. Per attraversare la terra incognita del nuovo disordine mondiale occorre sperimentare nuove strade e non già ripercorrere quelle vecchie.
Sergio Fabbrini
[ Il Sole 24 Ore ]