A partire dalla legge n. 69/2009 molti sono gli spunti di riflessione offerti dal legislatore relativi al tema della tutela in questo ultimo decennio.
Le deleghe al Governo, contenute negli articoli 54, 56 e 60 della legge del 2009, n. 69, hanno portato alla emanazione, in successione, dei tre decreti legislativi regolamentanti: il procedimento di mediazione, finalizzato alla conciliazione della lite (D. lg. 28/2010); il processo amministrativo, attraverso l’emanazione del cosiddetto codice del processo amministrativo (D. lg. 104/2010); la semplificazione dei riti, che ha comportato il confluire di numerosi procedimenti (in particolare quelli camerali) nei tre riti considerati dal legislatore di riferimento, quello ordinario, quello del lavoro e quello sommario (D. lg. 150/2011).
Tale formalizzazione indica chiaramente la strada che il moderno legislatore sta percorrendo in direzione di un sistema di tutela che cerca la sua realizzazione anche al di fuori del processo, tentando di coltivare (sia pure tra molte resistenze) la cultura della pacificazione, accanto alla cultura della lite; un sistema che cerca di risolvere i molti conflitti di giurisdizione, sia attraverso una chiara ed ampia (forse troppo ampia) individuazione dei casi di giurisdizione esclusiva, nei quali il giudice amministrativo giudica dei diritti soggettivi (art. 133 del D. lg. 104/2010), che in virtù del salvataggio delle energie processuali disperse in giudizi instaurati presso giudici privi di giurisdizione, sulla base delle regole dettate dalla translatio iudicii (art. 59 della L. 69/2009); sistema che viene tendenzialmente ricondotto a tre essenziali riti di riferimento, per evitare la parcellizzazione delle procedure, in modo da consentire, agli operatori del diritto, regole chiare e ben definite.
Lungo la strada tracciata dal legislatore del 2009 ed implementata dall’Esecutivo con il riempimento delle deleghe, sono state ravvisate altre esigenze di soluzione di criticità, che hanno determinato successivi interventi di carattere generale e di settore ad opera del Parlamento e dell’Esecutivo.
Nell’ambito della tutela del lavoro l’ampio stravolgimento necessitato dallo snellimento di quel sistema (di tutela) ha portato alla rivisitazione dell’articolo 18 della legge n. 300/70, meglio nota come “statuto dei lavoratori” con la individuazione, fornita dalla legge n. 92/2012 (legge Fornero), di un nuovo procedimento relativo ai licenziamenti che si inserisce, come rito speciale, nella più ampia tutela del lavoro, regolato dalla legge n. 533/73 ed inserito nel codice di rito civile (artt. 409 e ss.) (Processo che ha, però, avuto vita breve fermando la sua operatività al marzo 2015).
Il disegno di questo specifico rito sembra, però, essere in contrasto con la indicazione normativa (D. lg. 150/2011) che intendeva far sussumere l’intero sistema della tutela nei tre soli riti di riferimento, in precedenza ricordati, ed è necessario chiedersi se un analogo risultato (di accelerazione di questa tipologia di liti) non poteva perseguirsi operando invece sulle misure cautelari e sulle “tabelle”, strumenti che, per i giudici, regolano le precedenze dei giudizi.
La necessità del rispetto del precetto costituzionale relativo alla “ragionevole durata dei giudizi” ha, inoltre, indotto il legislatore ad intervenire sui giudizi di gravame (appello e ricorso per cassazione) sia in relazione al rito ordinario, che per il rito del lavoro, con la legge n. 134 del 2012.
E’ stato, pertanto, previsto un filtro per il giudizio d’appello ed uno specifico sub-procedimento in base al quale vagliare l’ammissibilità delle impugnazioni, analogamente si è intervenuti sul giudizio di cassazione riducendo l’ambito di ampiezza dei motivi (in particolare è stato ridotto il controllo di legittimità alla sola ipotesi di omessa motivazione – art. 360, primo comma, n. 5, cpc); è stato, inoltre, introdotto un discutibile sistema di “doppia conforme” al fine di limitare, ulteriormente, l’accesso al giudizio di legittimità innanzi alla Suprema Corte innanzi alla quale è stata ampiamente (in modo, a mio avviso, eccessivo) limitata la discussione orale (L. n. 197/2016).
Però, tali modifiche normative non sono, a mio modo di vedere, in condizione di offrire una valida soluzione al tema della eccessiva durata dei giudizi; in particolare, in fase di impugnazione è necessario interrogarsi, invece, sulle cause che hanno determinato tale stato di cose cercando di trarre, da questa analisi retrospettiva, la soluzione al quesito; piuttosto che mutuare da esperienze straniere soluzioni difficilmente applicabili (o applicate in modo errato e pasticciato) al nostro sistema.
La patologia della fase d’appello del processo è derivata, oltre che dall’accresciuta domanda, prodotta dalla mancanza di “rassegnazione” delle parti, nonché della perdita di autorevolezza delle pronunce dei giudici (ormai quasi tutti i giudizi sono resi da giudici monocratici in primo grado), soprattutto, per quanto concerne il rito del lavoro, dalla poco lungimirante valutazione operata all’atto della eliminazione dei pretori del lavoro, intervenuta a far data dal 1999, in base al decreto legislativo n. 51/1998.
Infatti, in quella circostanza non si è tenuto conto del fatto che tutte le impugnazioni relative alle sentenze emesse nel rito del lavoro, che fino a quel momento si rivolgevano ai decentrati Tribunali, sarebbero andate a gravare sulle Corti d’appello, generalmente operanti in sede regionale, fino ad ingolfarne i ruoli, dilatando, a dismisura, i tempi dell’appello, in un settore della tutela in cui la brevità della durata dei giudizi è essenziale, come ricorda la C.E.D.U.
Del resto non si è ritenuto di potenziare, per tempo, gli organici delle Corti d’appello e non credo che possa dare soluzione al problema la “chiamata alle armi”, intervenuta con la legge n. 98 del 2013 di conversione del D.L. 21.6.2013, n. 69, di avvocati e professori universitari.
Come si è visto la falla apertasi nel settore del lavoro ha determinato, con effetto domino, la crisi dell’intera fase d’appello, i cui tempi sono ormai fuori controllo in ogni distretto di Corte.
Bisogna seriamente porsi il quesito se non sia opportuno eliminare completamente il giudizio di gravame nel merito, affidando alla sola Corte di cassazione l’analisi di un unica impugnazione. Tale soluzione, in linea con il dettato costituzionale, che prescrive un solo grado di giudizio a cognizione piena ed il controllo “nomofilattico” della Cassazione, porterebbe a far operare i giudici ordinari su due soli gradi di giudizio, come da sempre accade per i processi che si svolgono innanzi alle magistrature amministrative e contabili.
Certamente sarà necessario ripristinare la collegialità in primo grado offrendo alle parti un giudizio a cognizione piena, rinunciando a poco logiche scorciatoie, rappresentate dal rito sommario.
L’unica perplessità che al riguardo può sorgere è se lasciare il giudice monocratico a presidio del rito del lavoro, in quanto tale segmento della giustizia, quando non si è eccessivamente ibridizzato con il rito ordinario, ha dato buona prova di sè; altrimenti sarà necessario adeguare il rito del lavoro al giudizio collegiale, come già avviene per il processo agrario (L. 203/82). Al giudizio di legittimità innanzi alla Cassazione dovrà, invece, essere restituito il potere di valutazione critica della motivazione, riproponendo il testo del quinto motivo di doglianza contenuto nella “novella” del 1950; sarà, inoltre, necessario ripensare all’organizzazione del sistema giustizia, non essendo certamente sufficiente il solo utilizzo, pur lodevole, del processo telematico (D.L. 90/2015), ricordando che esso integra una modalità di fruizione del sistema giustizia, ma non può costituire da solo la risoluzione dei mali della giustizia; è necessario ripensare l’organizzazione di questo sistema iniziando dalla collocazione degli uffici giudiziari, sul territorio (è ipotizzabile un Tribunale per ogni provincia), per passare al potenziamento degli uffici di cancelleria e per giungere, infine, alla rivisitazione delle competenze dei giudici di pace, che vanno implementate per sgravare una parte del carico di lavoro dei Tribunali.
Anche in relazione alla domanda di giustizia, notevolmente accresciutasi negli ultimi 30 anni, non è possibile continuare con il tentativo di “scoraggiarla” inserendo, poco efficaci, filtri di procedibilità, ma è necessario, se effettivamente si vuole investire sulla negoziazione e sulla conciliazione delle liti, dare vita ad una solida cultura della pacificazione, che deve muovere dalle aule dell’Università nelle quali, accanto alle cattedre che studiano il processo, è necessario istituire cattedre che insegnano la materia delle soluzioni alternative al giudizio (A.D.R.).
Anche la classe forense dovrà sforzarsi di capire che al D.N.A. degli avvocati appartiene anche la promozione di soluzioni mediate delle controversie, le quali sono più celeri ed economiche dei processi e perseguono soluzioni che essendo costruite concordemente dalle parti sono, assai spesso, migliori di quelle scaturenti dalle risultanze processuali ed intervengono in tempi più rapidi.
Una nota positiva nell’opera del legislatore degli ultimi anni è certamente quella della maggiore attenzione dedicata alla fase esecutiva del giudizio (L. n. 132/2015); per lungo tempo, infatti, il procedimento esecutivo era stato trascurato, quasi si ritenesse che il dovere di amministrazione della giustizia si esaurisse con la fase di cognizione, senza considerare che il momento satisfattivo, per la parte vittoriosa, interviene solo all’atto dell’esecuzione della pronuncia.
La maggiore attenzione dedicata, a partire dal 2006, al terzo libro del codice di rito civile ha prodotto un efficace snellimento delle procedure, anche attraverso la maggior utilizzazione di ausiliari del giudice, snellimento di cui si è giovata anche la materia del lavoro.
Nota dolente è, invece, costituita dalla circostanza, discutibile e di dubbia costituzionalità, dell’estensione, inizialmente non prevista, del pagamento del contributo unificato, relativo alle spese di giustizia, per le cause di lavoro. Invero, proprio l’importanza che la nostra Costituzione dedica al tema del lavoro, sin dal suo primo articolo, avrebbe dovuto suggerire al legislatore di evitare di far cassa sulle spese di giustizia in questa materia.
Tra luci (poche) ed ombre (molte) del nostro sistema giustizia non resta che augurarsi che il Paese torni ad essere la “culla del diritto” che è stato per lungo tempo, consentendo in tal modo un recupero degli investimenti stranieri (essenziali per un paese non produttore di materie prime), derivante anche dalla ritrovata credibilità degli strumenti di tutela delle situazioni giuridiche protette e dai tempi, auspicabilmente brevi, di essa.
PIERO SANDULLI
E’ titolare della Cattedra di Diritto Processuale Civile nell’Università degli Studi di Teramo; nella stessa Università insegna la Giustizia Sportiva.
E’ docente presso la Scuola delle Professioni legali dell’Università di Roma “La Sapienza” e di Teramo.
E’ avvocato abilitato alla difesa innanzi alle giurisdizioni superiori.
E’ componente del Nucleo strategico di Valutazione dei dirigenti di Laziodisu.
E’ stato componente del Consiglio giudiziario presso la Corte d’Appello di l’Aquila (2012-2016).
E’ Presidente della Corte Sportiva d’Appello della Federcalcio.
E’ Presidente del Collegio di garanzia della Federnuoto.
E’ stato Assessore alle Politiche Giuridiche e demografiche del Comune di Roma (1993-1997).
E’ stato componente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma (2001-2004).
E’ autore di numerosi testi giuridici.