“Io, vi confesso, non ho ancora capito perché è toccato a me…”, dice il nuovo segretario Nicola Zingaretti alla fine del suo discorso di investitura. «L’abbiamo capito noi», lo tranquillizza Paola De Micheli, l’ex sottosegretaria che lo ha seguito in tutti questi mesi. L’ammissione arriva alla fine di venticinque minuti di intervento, variamente dedicati a ringraziare, nell’ordine, i partigiani, i lavoratori, i sindacati, gli intellettuali, le donne, insomma tutte o quasi le categorie che negli ultimi anni si erano sentiti respinti dal Partito democratico, mancavano solo i gufi e i professoroni. Nicola Zingaretti elogia la storia, cita tre figure, Aldo Moro, Romano Prodi e Sergio Mattarella, appartenenti a quel cattolicesimo democratico che non ha mai fatto parte della storia del Pci e che pure è una delle radici del Pd, e la sedicenne svedese Greta Thunberg, come dire che senza passato non c’è futuro.
È lo strappo culturale più forte con la precedente gestione, quella del Rottamatore venuto da Firenze, al termine di un fine settimana che ha visto il ritorno nelle piazze e nelle strade di qualcosa di più dell’opposizione, concetto astrattamente geometrico della politica, e neppure di un popolo, o di un incrocio di popoli. Sono tornate a vedersi le persone, le donne e gli uomini con i loro corpi gettati nella mischia, li vedevi giovani nel corteo di Milano o anziani in fila davanti ai gazebo per le primarie, con le loro speranze e le loro attese. Con la loro spinta che la politica ha dimenticato, fare qualcosa di gratuito per un’altra persona, per l’altro, che è istintiva, forte, naturale almeno quanto la paura o la chiusura su cui si sono costruite negli ultimi anni le carriere politiche dei nuovi padroni della scena. Sono tornati i volti, come scriveva anni fa il teologo Italo Mancini: «la domanda sul futuro è legata alla comunione dei volti, a cosa ci sia da fare e da patire nel vivere faccia a faccia con il volto degli altri. Sarà una strada lunga: ma è già certo che se nel faccia a faccia prevale la faccia mia, allora è confermato il mondo della sopraffazione e della prevaricazione, se invece prevale la faccia dell’altro e il suo diritto, allora è un’altra cosa, quell’altra cosa sempre intravista e mai posseduta…».
Era piena di volti, di storie, la piazza anti-razzista di Milano, una sfilata di arrivati a sorpresa, di non previsti, di non invitati. Appena pochi minuti prima, infatti, gli organizzatori giuravano che avrebbero messo la firma su cinquantamila partecipanti. Sono i non previsti, perché non mobilitati da nessun partito e nessuna organizzazione, a rappresentare la possibilità di risalita per quella parte di Italia che non si rassegna a vivere salviniana o casaleggiana. Li abbiamo visti molte volte in questo anno, in questi dodici mesi che ci separano dalla batosta elettorale di un anno fa, il 4 marzo 2018. Ma erano spariti ben prima, negli anni del Pd di governo, del progressivo allontanamento dei suoi leader da un pezzo consistente di elettorato e dalla realtà . Questo popolo che oggi sembra tornare, in realtà , non se n’è mai andato. Ha organizzato luoghi di incontro, forme di impegno inedito (l’operazione Mediterranea), forum sulla disuguaglianza (come quello di Fabrizio Barca), resistenza anti-fascista nelle scuole e nei licei. Ma certo, mancava all’appello la politica, che prima come si dice guidava i processi e oggi finalmente arriva, ma per ultima.
Qualcosa si muove a sinistra, ma si muoveva anche prima, senza rappresentanza. A Milano e nei gazebo è sfilato un popolo senza leader. Non è un leader il sindaco di Milano Beppe Sala, il più applaudito della giornata del 2 marzo, e non lo è il nuovo segretario del Pd Zingaretti eletto ieri. Un’altra rottura con il passato. «Mi avete dato la fascia di questa squadra e vi assicuro che combatterò su ogni pallone», disse Renzi nel 2013 pochi minuti dopo essere stato eletto segretario del Pd. Aveva vinto lui, dopo il disastro della non vittoria di Bersani. Quel voto andava a Renzi come speranza di una rivincita, era un voto per Renzi, ma anche un voto di Renzi, il sindaco di Firenze fece subito l’errore di considerarlo come una cosa di sua proprietà e rovesciò il governo di Enrico Letta, conquistò il 40 per cento alle elezioni europee, trasformò il Pd in un suo comitato elettorale, perse il referendum e poi le elezioni. Conclusione: oggi il Capitano della politica italiana è un Matteo di altro colore.
Il voto di ieri, invece, non appartiene a nessuno. Zingaretti si chiede retoricamente perché capiti a lui, anche se il presidente della regione Lazio è il contrario del segretario per caso. È il risultato di una lunghissima incubazione. L’ultimo della Stirpe delle Botteghe Oscure, uno che si è iscritto da giovane alla direzione del partito, come Pajetta diceva di Enrico Berlinguer. Un predestinato al trono del partito più grande della sinistra, se quel regno fosse rimasto integro. Segretario della Sinistra giovanile, spesso introduceva il discorso del leader Massimo (D’Alema), responsabile Esteri dei Ds, il ruolo che nel Pci fu di Giorgio Napolitano, capo della federazione romana dei Ds, poi segretario regionale del Pd, sotto attacco di Matteo Orfini (ieri Zingaretti l’ha stracciato a Roma nei gazebo), poi presidente della Provincia di Roma e presidente della regione Lazio. Un curriculum da professionista della politica, abituato alle discese e alle risalite, agli attacchi e alle ritirate, ma anche da figlio prediletto di un partito che non c’è più da tempo. Quello originario, il Pci, è finito trent’anni fa, un periodo ormai lungo che coincide con il tempo in cui la sinistra non solo italiana ma europea ha ceduto culturalmente all’egemonia neo-liberista ed è stata poi cancellata dall’avanzata populista. Quello che ha sostituito il Pci negli anni più recenti, il Pd, ha rischiato di morire o di finire cancellato nell’irrilevanza.
Zingaretti fa parte di entrambe le storie, è la figura più lontana da quella del papa straniero avendo frequentato una delle chiese-madri, il Pci, e poi con Goffredo Bettini il cuore del modello romano da cui sono partiti Rutelli e Veltroni. Un politico dalla tattica estenuante, prudentissimo, calcolatore della propria ombra, poco coraggioso per gli avversari e per molti amici, mai uno strappo o un’alzata di testa, ma anche un uomo pacificato, auto-ironico, rilassato rispetto al potere. E dunque il più attrezzato per essere, almeno sulla carta, quello che cambia tutto. Renzi era il Principe di Machiavelli, voglioso di comandare sui territori strappati con l’astuzia e con la fortuna, la determinazione e il cinismo. Zingaretti, invece, è il Principino di una famiglia decaduta che ha dilapidato il patrimonio, sa che nulla di quella eredità può essere conservato ma che tutto di quel poco rimasto va rimesso in gioco.
La sua elezione arriva in un momento in cui Salvini appare fortissimo nei sondaggi ma potrebbe essere spiazzato dall’implosione troppo rapida dei 5 Stelle. L’altro Matteo, Renzi, è stato sorpreso dall’alta affluenza e dal plebiscito per Zingaretti e per lui i piani per una exit strategy dal Pd si assottigliano paurosamente. Sono le condizioni di contesto in cui si trova Zingaretti. Tocca a lui aprire una nuova strada, in linea con le due richieste che arrivano dal primo fine settimana di marzo. La piazza di Milano chiede radicalità e novità , non solo di persone ma anche di comportamenti, di parole da utilizzare, di politiche. I gazebo delle primarie, invece, sono conservativi, esprimono una identità antica e la necessità di difendere quel che resta del partito. Ma le due esigenze, il cambiamento e l’identità , non sono alternative, anzi.
C’è un partito da rifare: la costruzione della classe dirigente è stata tranciata, basta vedere la pessima performance locale di molti parlamentari che sul loro territorio esistono come ologrammi, ci sono in compenso molte energie da mettere alla prova, con l’ossatura di amministratori locali quarantenni dotati di cultura politica, l’opposto dei deputati e senatori usciti dalla ruota della fortuna che accomuna oggi i gruppi parlamentari del Pd e del Movimento 5 Stelle.
C’è la rete delle alleanze da rimettere su: con chi sta alla sinistra del Pd e con pezzi fondamentali di una nuova coalizione, come il mondo cattolico e la cultura liberal-democratica. C’è un pezzo di Italia, infine, che si è auto-organizzato, mentre la politica affondava e avanzavano razzismo e odio. Le primarie di ieri non sono un trionfo, a dirla tutta e fuor di propaganda, neppure numerico. Sono lo zoccolo duro di quelli che resistono sempre, che sarebbero andati a votare qualunque cosa pur di manifestare la loro esistenza.
La fotografia della crisi, da cui ricominciare. Sono un punto di partenza, non il punto di arrivo. Non sono l’omaggio al carisma di un leader, ma l’investimento che ancora una volta – nonostante tutto – in tanti fanno su se stessi, i loro valori, la loro fiducia che una grande democrazia non può finire così, in mano ai lupi. C’è una cultura politica, infine, da riscrivere: il riformismo inteso come destra della sinistra, come la sinistra che attuava in modo più gentile e più ipocrita le politiche della destra, ha portato al trionfo dei populismi.
In queste regioni sguarnite, incustodite, abbandonate, dovrà muoversi Nicola Senza Terra, ora che ha conquistato la corona di un reame in rotta, in stato di assedio perfino nelle roccaforti dell’Emilia e della Toscana rossa. Non ha nulla da difendere, le casse sono vuote, molte federazioni locali appaiono deserte, sui social si è seguita la strada della cassa di risonanza al verbo del capo. Può mettere in discussione tutto, anche lo stemma e il casato, il nome e il simbolo, in vista delle elezioni per l’Europa, per andarsi a cercare il suo popolo disperso, il suo unico patrimonio potenziale. Lui che appartiene alla tradizione può meglio di altri incarnare l’innovazione, superare il modello del partito personale e quello del partito fine ultimo di ogni azione per proporre il partito strumento, il partito network che manca all’Italia. Ma per farlo dovrà cambiare anche lui. Dovrà diventare Nicola Cuor di Leone.