La legge della comunicazione è impietosa. I braccianti agricoli – ormai in gran parte immigrati – sfruttati “in nero” nei campi sono invisibili.Diventano visibili solo quando “ci scappa il morto”, sulla strada e sul luogo della loro fatica. Un’occasione amara, per provare a convincere l’opinione pubblica, un po’ più attenta e consapevole, di cose su cui riflettiamo e lavoriamo da anni.
La concorrenza nella globalizzazione in presenza di una forza lavoro mondiale eterogenea e diseguale si trasforma in una corsa al ribasso sul costo del lavoro dove gli ultimi fanno concorrenza ai penultimi e produce precarietà e sfruttamento. Siamo tutti colpevoli, ma nessuno si sente tale perché ogni singolo produttore si trincera dietro il fatto che non si può che far così se si vuole sopravvivere. Le buone intenzioni della politica sono vanificate da un armamentario di ricette obsoleto e, magari, quando una legge è buona non la si applica a dovere…
Se il costo di produzione da noi è, per intenderci, pari a 100 quando rispettiamo tutti gli standard sociali e ambientali, ed è pari a 60 per chi produce in altri Paesi al di sotto dei nostri (e spesso dei loro) standard per sopravvivere non resta che inseguire al ribasso. Nasce così lo sfruttamento di casa nostra e la necessità di manodopera immigrata che accetta più favorevolmente tali condizioni provenendo spesso da situazioni ancora più difficili. Norme che elevano ancor più gli standard da noi (art. 18, abolizione dei voucher, lotta ai contratti a tempo determinato ) aumentano ancor più il gap con i concorrenti internazionali (portandolo per intenderci a 120 contro 60). Per fare qualcosa dobbiamo affrontare il problema da altri versanti. Migliorare le condizioni complessive di competitività del Sistema Paese (per scendere a 100 contro 80) lavorando su questioni come tempi giustizia civile, burocrazia, appalti, aiutando cioè chi crea lavoro. Ridurre la fiscalità sul lavoro è anch’essa una via maestra, ma costa.
C’è però qualcos’altro d’importante che dobbiamo iniziare a fare. Quei poveri braccianti agricoli morti nell’incidente in Puglia non hanno nessun potere contrattuale per migliorare le loro condizioni di lavoro. E così il lavoratore d’origine indiana che nei campi del Casertano è stato schiantato, a quanto pare, dalla disidratazione e sulla cui morte si sta ora indagando. Ma noi cittadini-consumatori (aiutati da azioni pubbliche opportune) abbiamo potere. Dobbiamo innanzitutto prendere coscienza del problema e non entusiasmarci più per il sottocosto, dietro il quale si nasconde molto spesso un sottosalario e un potere d’acquisto dei lavoratori che hanno contribuito a realizzare quel prodotto che non si possono permettere nemmeno il sottocosto medesimo. In un esperimento che abbiamo realizzato recentemente in Italia con Vittorio Pelligra e Pasquale Scaramozzino abbiamo messo per due mesi un cartellone all’ingresso di alcuni punti vendita delle grandi catene della distribuzione. Il cartellone pubblicava le pagelle in varie materie di sostenibilità sociale ed ambientale delle 10 maggiori multinazionali del cibo mondiale. A distanza di due mesi le vendite della prima in classifica erano aumentate del 6% e quelle delle ultime tre si erano ridotte mediamente del 15% rispetto al campione di controllo di punti vendita con le stesse caratteristiche ma senza il cartellone all’ingresso.
Risultati simili sono stati ottenuti in un esperimento condotto da Michael Hiscox e Jens Heinmueller in un grande centro commerciale a New York e in un altro realizzato sugli acquisti su eBay. Una parte dei cittadini-consumatori ha l’intelligenza di capire che premiare i sostenibili è un atto “generativo” che premia di per sé, ma anche un atto politico che può contribuire a cambiare le cose a nostro stesso favore (creando complessivamente le condizioni per un sistema di lavoro più degno, orientato alla sostenibilità ambientale e a una maggiore salute alimentare).
La prima ricetta dunque è mettere i consumatori di fronte alle loro propria responsabilità, aumentando la loro informazione (cosa di per sé lodevole) che oggi si riduce alla conoscenza del prezzo (ignorando perlopiù dimensioni fondamentali come effetti del prodotto sulla salute, tasso di obsolescenza e appunto sostenibilità sociale e ambientale della filiera). Abbiamo una grande occasione a portata di mano perché non tutti i produttori sono uguali.
La legge sul caporalato ha istituito il registro delle reti del lavoro agricolo di qualità, in regola con i contributi e le norme sul lavoro. Nel Foggiano si sono iscritte solo 7mila imprese su 31mila. I produttori non sono tutti uguali. are un’informazione su chi rispetta le regole e chi no vuol dire stimolare i consumatori a “votare col portafoglio” e creare un incentivo economico alle imprese a mettersi in regola. Si tratta solo un esempio di una questione più generale e importante, quella della diffusione delle informazioni sul rating sociale e ambientale, un mercato oggi floridissimo in finanza dove la maggioranza dei fondi “vota col portafoglio” e compra queste informazioni per evitare aziende “irresponsabili” che espongono a rischi gli investimenti. C’è da sviluppare lo stesso mercato per i consumatori. Le tecnologie sono state sviluppate e gli attori stanno nascendo. Dovrebbero essere sindacati e associazioni dei consumatori i primi a prendere l’iniziativa. L’intervento pubblico può fare il suo per aiutare questo processo. Lo Stato può e deve massicciamente “votare col portafoglio” nel caso delle regole di appalto (e lo stesso tocca alle imprese della grande distribuzione).
Bloccare la spirale perversa del massimo ribasso e mettere degli standard minimi sociali e ambientali da rispettare è una risposta importante che va nella stessa direzione indicata prima. Se i cittadini-consumatori fossero consapevoli e decidessero tutti insieme di votare col portafoglio per i migliori, il caporalato potrebbe sparire dalle campagne italiane. Vincerebbero le imprese tecnologicamente più avanzate che hanno meno bisogno di puntare al ribasso sul costo del lavoro. E avremo maggiori garanzie per la salute (includendo anche questa tra i requisiti informativi sui prodotti). Favoriremmo l’evoluzione del made in Italy verso una qualità a più dimensioni che diventerebbe un importante fattore competitivo per il futuro. Siamo pronti – istituzioni e consumatori – a prenderci le nostre responsabilità?