giovedì, 28 Novembre 2024

“Non entrare nella mia acqua!”: la concisione obbligatoria

Roberto Vacca 

Racconto come nei tribunali greci antichi ogni intervento di un avvocato non potesse superare un tempo prefissato che veniva misurato con una clessidra. Gli oratori concisi vengono spesso apprezzati più di quelli verbosi. Chi vuole migliorare la qualità dei suoi interventi nei dibattiti o delle sue conferenze, farà bene a misurarne la durata e, quindi, a ragionare come autolimitarsi.

Possiedo una ristampa in formato ridotto della Encyclopedie Française (Dictionnaire Raisonné des Sciences, des Arts et des Métiers, 1751 – READEX MICROPRINT CORPORATION, 1969) di Diderot e D’Alembert. Ho consultato la voce “Horloge” che riporta una storia documentata della misura del tempo dalle clessidre, agli orologi ad acqua, a quelli meccanici – preziosi, riservati ai re. Contiene anche una nota:

“Platone scrisse che gli oratori sono schiavi delle clessidre, mentre i filosofi sono uomini liberi.”

Ho trovato subito questo passo nel Dialogo in cui Socrate discute sulla scienza e sulla dialettica con il sofista Teteto. Platone chiamava “oratori” gli avvocati che difendevano le cause in tribunale. Ogni arringa doveva avere una durata limitata che era stabilita dal giudice e veniva misurata con una clessidra. Defluita l’ultima goccia da quell’orologio ad acqua, il giudice toglieva la parola all’oratore. In casi importanti poteva aggiungere una clessidra alla clessidra raddoppiando il tempo concesso. Se l’oratore di parte avversa con la sua requisitoria  sforava nel tempo a me riservato, gli dicevo:

“Non entrare nella mia acqua!”

L’avvocato  raggiungeva talora il tempo massimo senza aver approfondito  argomenti e concetti rilevanti. Era schiavo del tempo. Era come se non avesse nemmeno pensato le frasi che avrebbe potuto dire e che invece non aveva pronunciato. Platone asseriva, poi, che, se il filosofo prova a discutere in tribunale rispettando  i vincoli di tempo imposti i quella sede, omette fatti e considerazioni essenziali. Quindi fa una figura ridicola, non convince gli ascoltatori  e non riesce nemmeno a raggiungere la verità. Se, invece, dialoga liberamente senza vincoli di tempo, introduce tutte le considerazioni necessarie a raggiungere i suoi obiettivi.

Platone  parla anche di verifica sperimentale, senza definire regole, né procedure. Le sue argomentazioni miravano a individuare: bellezza, virtù, amore, bontà piuttosto che verità contrapposta a falsità. Il filosofo si deve prefiggere di individuare e discutere idee che esistono in un mondo parallelo a quello della realtà oggettiva e che spieghino la realtà stessa. L’obiettivo ultimo, però, dovrebbe essere la comprensione dell’idea somma  –  quella del bene, che secondo alcuni pensatori coinciderebbe con l’idea di Dio.

È interessante notare che nessuno dei 35  dialoghi di Platone dimostra quanto prefisso nelle sue prime righe (ad esempio l’immortalità dell’anima nel Fedone) secondo le regole della logica classica che fu introdotta solo da Aristotele (nell’Organon) con il meccanismo del sillogismo:

“Tutti gli uomini sono mortali – Menelao è un uomo – Dunque Menelao è mortale”.

Platone non aveva formulato affatto il principio di non contraddizione  su cui si basano la logica moderna e anche la logica matematica. Parafrasando Aristotele, si può enunciare così:

“Se x è una proposizione chiara che appartiene all’insieme di quelle che possono essere solo vere o false, allora è falsa la proposizione che asserisce simultaneamente che  x  è vera e che  x è falsa.”

Questo principio ci illumina da 23 secoli, ma molti non ne hanno mai sentito parlare.

Roberto Vacca 

[ articolo in corso di pubblicazione su L’Orologio ]