Questione di brand. Nell’estate 2018 va di moda, nei palazzi della politica, criticare le privatizzazioni ed esaltare le nazionalizzazioni, così come quasi tutti tengono a ribadire il primato dell’economia sulla politica. Ma la politica, o meglio la classe politica, ha così assorbito le tecniche (commerciali) di vendita e di promozione dei prodotti da poter dare lezioni anche ai più rinomati guru del marketing. In politica ormai tutto è marketing, roba che persino il più scafato di tutti i politologi, ossia Niccolò Machiavelli (1469-1527), secondo cui «governare è far credere», adesso si meraviglierebbe dei livelli di spregiudicatezza raggiunti dai suoi epigoni nella comunicazione di potere. Da tempo, non solo nella politica italiana, comunicare è più conveniente e più importante che conoscere, alla faccia di quel passatista di Luigi Einaudi (1874-1961), indomito sostenitore della teoria opposta (conoscere prima di decidere). Ma se chi è chiamato a decidere, dà inequivocabili dimostrazioni di ignoranza, meglio ancora, anzi tanto di guadagnato. L’opinione pubblica si sentirà più confortata, più rassicurata nelle sue convinzioni e nei suoi pregiudizi, oltre al fatto che si riterrà gratificata dalla comunanza di vedute con la classe dirigente. Sono soddisfazioni.
Comunicare, però, in politica è sinonimo di fare propaganda. E nessun accadimento si presta alla propaganda politica più e meglio di un disastro naturale o di una tragedia come quella del ponte Morandi a Genova. In casi come questi le tifoserie, specie sui social, si scatenano con la forza degli ultrà in curva. E ovviamente prevalgono, nella raccolta dei «mi piace», quelli che, nei palazzi del potere, vantano, sia pure provvisoriamente, un brand più credibile. Per cui: un telesignore può dire le scempiaggini più sesquipedali, ma se dispone del vento favorevole, tutto gli viene perdonato e omaggiato. Viceversa: un tizio può esprimere le valutazioni più intelligenti, ma se la sua credibilità è precipitata a zero, nulla gli verrà risparmiato, neppure un errore nella versione di greco ai tempi del liceo.
A trovarsi, oggi, in quest’ultima difficile condizione è soprattutto il Pd, in particolare l’ex segretario Matteo Renzi. Oddio, Renzi e gli altri dirigenti «dem», ci mettono del proprio, a volte, nel peggiorare, come si dice, la loro immagine, ma è indubbio che lo spirito del tempo sia piuttosto spietato nei loro confronti, mentre si dimostra indulgente e comprensivo verso gli attuali reggitori della cosa pubblica. Il che sta a significare, anzi a ribadire una cosa. Che in politica il fattore credibilità è tutto. Non è importante cosa si dice, ma chi lo dice. Se chi lo dice è out, neppure Padre Pio (1887-1968) riuscirebbe nel miracolo di rimetterlo in sesto. O, perlomeno, il Santo di Pietrelcina dovrebbe chiedere i tempi supplementari per tentare la resurrezione politica del malcapitato.
Intendiamoci. La credibilità non è una carta di credito a tempo indeterminato. Come tutte le carte di credito, essa va consolidata e monitorata costantemente, pena il rischio di scivolare nel girone dei soggetti a rischio solvibilità (altra faccia della medaglia credibilità). Quindi, non è detto che la credibilità della coalizione legastellata sia destinata all’eternità, basta un nonnulla per cambiare il corso degli eventi. È pressoché certo, però, che l’attuale maggioranza di governo non possa, e non debba, temere nulla dalle odierne opposizioni, a cominciare da quella piddina, proprio perché i relativi gruppi dirigenti hanno smarrito la credibilità necessaria per rappresentare una prospettiva (per l’elettorato) e un’alternativa (al duo Di Maio-Salvini). I fischi di Genova ai rappresentati del Pd lo hanno rimarcato in diretta tv.
Se fosse solo una questione comunicativa o comunicazionale, nulla quaestio. Basterebbe affidarsi a professionisti del ramo, a maestri della propaganda, di riconosciuta bravura, e il problema sarebbe risolto. Qui, però, è in ballo la fisiologia del sistema democratico, che non può fare a meno di un’opposizione come si deve. Ma un’opposizione efficace non può fare a meno di una leadership credibile se non vuole consegnarsi all’irrilevanza più plateale o alla testimonianza più platonica. Traduzione: l’opposizione deve cambiare al più presto il proprio stato maggiore, per recuperare la credibilità perduta. Deve farlo senza esitazioni, anche nell’interesse generale.
I nodi da sciogliere nei prossimi mesi assai delicati e complicati: Europa, euro, legge di bilancio, politica sociale, ruolo dello Stato in economia, infrastrutture, energia eccetera. Guai se prevalesse una sorta di pensiero unico legato solo al brand, e non ai contenuti programmatici di una formula o di una classe politica. Ci avvieremmo a una sorta di casting permanente, legato solo ai fattori di credibilità e presa mediatiche. Ma per invertire questa rotta servirebbe, all’opposizione, una strategia quasi omeopatica: affidarsi a chi è credibile in quanto tale, non solo o non già per le cose che dice.