Dopo un Consiglio europeo memorabile nella storia del vecchio continente, l’Ue resta in equilibrio sull’intesa raggiunta nella notte sul recovery fund. In equilibrio, ma funambola. Il compromesso raggiunto dopo 4 giorni di discussioni – vagonate di soldi, merito di Angela Merkel che con Emmanuel Macron ha riesumato l’asse con la Francia e voluto fortemente che l’Ue siglasse il recovery fund – è utile per ognuno degli Stati membri. Ognuno può rivendicare qualcosa come in tutte le architetture negoziali ben riuscite. Ma la corda è sospesa sul vuoto: manca lo slancio sul futuro. Intesa più ragionieristica che politica, con gioielli davvero rivoluzionari come i recovery bond, finalmente embrioni di debito comune europeo, ma senza la creatività e la visione che serve costruire l’Europa del domani.
Del ‘Next generation Eu’ resta il titolo, non la sostanza che si poneva l’obiettivo di parlare alle prossime generazioni. Ricerca, fondi per il digitale, web tax e tasse sul carbone sono solo accennati nel testo: finiscono vittima di tagli operati per dare soldi ai frugali (rebates). Nei gruppi politici dell’Europarlamento serpeggia il malumore.
Giovedì la plenaria approverà una risoluzione sull’intesa raggiunta dai leader. Ma subito dopo, si apprende da fonti dell’Eurocamera, il Parlamento vuole avviare i negoziati sul bilancio pluriennale europeo. In tutti i gruppi prevale la delusione per la proposta del Consiglio: 1.074mld di euro, al di sotto delle proposte della Commissione e dello stesso Parlamento, che ha potere di veto sul bilancio. I negoziati si svolgeranno tra eurocamera e presidenza di turno tedesca. Entro la fine dell’anno il bilancio dovrà essere approvato, dovrà essere pronto per coprire il periodo 2021-27. Ma la questione non si annuncia come una passeggiata, benchè non ci sia molto tempo a disposizione ed è probabile che la necessità di chiudere un accordo prevalga sulla tentazione di mettere il veto.
Proprio come è successo in questi giorni di Consiglio europeo, da venerdì scorso fino all’alba di oggi. Motore del negoziato è stata la paura di non raggiungere l’intesa, di sottoscrivere il fallimento dell’Unione, espondendola alle scorribande dei mercati e delle superpotenze di oriente e occidente. Finita. Più che la solidarietà, ha prevalso il timore che uno Stato membro particolarmente colpito dalla pandemia, tipo l’Italia, potesse dichiarare il default, trascinando con sé il resto d’Europa: nel baratro.
Sono buone ragioni per siglare un’intesa che infatti è arrivata, per fortuna. Buone ragioni che hanno fatto compiere all’Ue un passo in avanti rispetto ai negoziati di cinque anni fa sulla crisi del debito greca: lì tutti i potenti del nord, compresa la Germania, erano convinti che con Atene andasse usato il pugno di ferro dell’austerity. La Grecia ne è uscita più in linea con le regole Ue, ma la sua società è stritolata. Oggi la parte del falco l’hanno fatta solo i frugali capitanati dall’olandese Mark Rutte. Eppure hanno incassato anche loro.
E, di fronte della loro richiesta decisamente anti-europea di ottenere maggiori sconti su quanto contribuiscono al bilancio dell’Unione, gli altri 22 leader hanno accettato di tagliare i fondi per digitale, ricerca e sanità. Non solo. Il Consiglio non ha avuto il coraggio di incidere di più sull’istituzione di nuove risorse proprie per ripagare il debito che la Commissione accumulerà per emettere i recovery bond. Era la parte più rivoluzionaria del pacchetto, la parte che puntava a fondare non solo una politica fiscale comune – che evidentemente l’Olanda non vuole, con il suo regime da paradiso fiscale nell’Ue – ma anche una politica estera comune.
Perché, per esempio, istituire una web tax comune significa andare a colpire i giganti digitali della Silicon Valley e dunque adottare la stesso metro comune di ben 27 Stati nei confronti di Donald Trump. Lo stesso dicasi per la Cina, con le tasse sui prodotti di industrie inquinanti importati in Europa.
E invece si è scelta una formula blanda, che parla di tasse sulla plastica a partire da gennaio ma su carbone e web tax rimanda al 2023, in attesa di una proposta legislativa della Commissione europea l’anno prossimo. Da sottolineare che sulla questione risorse proprie – e solo su questa parte del recovery fund – dovranno esprimersi i Parlamenti nazionali: ma non c’è una scadenza che li metta alle corde, solo una moral suasion per fare in fretta.
E si è scelta una formula blanda anche sul rispetto dello stato di diritto come condizionalità per avere i fondi europei, tanto che l’ungherese Viktor Orban canta vittoria.
Nemmeno la pandemia riesce a cambiare il corso delle cose europee. Anzi mai come in questo vertice la vera protagonista è stata la frammentazione tra nord e sud Europa. Roba che lascia cicatrici, nonostante l’accordo finale. Questione che nella trattativa ha addirittura oscurato i leader di Germania e Francia: di solito sono loro i protagonisti di ogni vertice.
Angela Merkel, per dire, è stata certamente protagonista della mediazione, ma relegata dietro le quinte. Anche lei ha patito il ‘divismo’ di Rutte, gli attacchi di Giuseppe Conte contro il premier olandese hanno rubato la scena. Nascosta, quasi da risultare assente, Ursula von der Leyen, madrina del pacchetto elaborato dalla sua squadra in Commissione europea. Ne esce meglio Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo mai come questa volta con un ruolo di spicco nel negoziato. Forse perché le divisioni erano così preponderanti da lasciare un’unica chance: aggrapparsi alla formalità dei ruoli.
E allora la formalità compone una facciata certamente in equilibrio, ma schiaccia la fantasia. Oggi l’Europa tira un respiro di sollievo per l’accordo fatto. Ma non c’è il clima della festa per un rilancio nella storia. Sicuramente per via delle incognite disseminate dal virus nell’economia degli Stati nazionali. Ma anche perché il passo in avanti compiuto con l’accordo è ancora troppo piccolo per la portata della sfida: epocale e globale
Angela Mauro
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