Dove saranno e cosa faranno le nostre ragazze e i nostri ragazzi tra venti o trent’anni? Cosa faremo tutti noi? Dipenderà da come avremo risposto alle grandi sfide che la nostra comunità mondiale deve affrontare. Nostro dovere è pensare, e attuare già oggi, soluzioni che ci portino verso un domani più desiderabile per i più giovani e per le generazioni che ci seguiranno. Non è impossibile. Anche se troppo timidamente, abbiamo già iniziato a farlo: penso alla lotta al cambiamento climatico.
Ma di cosa abbiamo bisogno per approntare queste risposte e per metterle in pratica? Servono talento, creatività, sforzi condivisi. Abbiamo bisogno di guardare al futuro, enfatizzando ciò che ci unisce, piuttosto che guardare al passato e al presente, enfatizzando ciò che ci divide. Questo è particolarmente vero pensando alle contraddizioni, e alle opportunità, legate alla popolazione.
La vittoria dell’umanità contro i decessi precoci ci ha portato in regalo l’invecchiamento della popolazione. L’Italia, con il suo 24%, è il terzo Paese al mondo come quota di ultrasessantacinquenni, dopo il Principato di Monaco e il Giappone. Cioè, siamo uno dei Paesi in cui più generazioni sono presenti contemporaneamente. La quota di ultrasessantacinquenni aumenterà nei prossimi anni, ad una velocità che dipenderà dalle scelte politiche. In Italia e in Europa, le aree meno sviluppate e più rurali rischiano di sperimentare un veloce invecchiamento della popolazione, senza precedenti nella storia dell’umanità. Spingendo via i giovani e perdendo i benefici della compresenza tra generazioni.
Altri contrasti demografici sono evidenti oggi. Mentre in Italia siamo al minimo storico delle nascite e siamo sul podio dell’invecchiamento, il mondo non è mai stato così pieno di giovani. Un solo numero: 144 milioni di nati nel 2012, a livello mondiale, saranno probabilmente la coorte di nascita più grande mai vista. Sono i diciottenni del 2030. Proverranno in gran parte dall’Africa, dall’altra sponda del Mar Mediterraneo. È chiara, quindi, la complementarità delle evoluzioni demografiche: calano i giovani da un lato, sulla nostra sponda del Mediterraneo, aumentano dall’altro, sulla sponda opposta.
Per questo, l’Italia e l’Europa non possono non pensare che per il nostro futuro sia necessaria una regolazione dei movimenti migratori più gestita e condivisa. Deve essere realistica e tenere conto della complementarità demografica che abbiamo descritto. Deve essere orientata al lungo periodo per quanto riguarda la programmazione dei flussi di lavoratori e delle famiglie e deve affrontare in modo deciso il fenomeno, in aumento, dei rifugiati: politici ma anche determinati dai cambiamenti climatici e dalle carestie.
La programmazione deve essere ragionata, con la testa e non con la pancia. Essere un polo d’attrazione, come Paese e come continente, è un’opportunità che va sfruttata in quanto tale e non subita come emergenza o rischio. La Brexit è un esempio da cui trarre lezioni: un grande Paese ha deciso di chiudersi a riccio e respingere la comunità internazionale alla quale apparteneva.
La chiusura ha come previsto provocato un esodo di talenti dal Paese e una minore attrattività in Europa, pur non fermando l’immigrazione che è invece spinta dalle forze globali che abbiamo menzionato. Non a caso, avveduti politici britannici hanno capito il rischio di una minore attrattività verso i talenti: tra i primi accordi che il Regno Unito post-Brexit ha preso con l’Unione Europea vi è infatti la partecipazione al programma di ricerca scientifica Horizon Europe, inclusa la gemma dello European Research Council.
È necessario che tutti i Paesi Europei e leader nell’economia mondiale si rendano conto, come è stato detto chiaramente in Germania, di essere «Paesi di immigrazione». Devono dunque fare dell’integrazione di chi arriva a scuola, all’università, nel mercato del lavoro, una delle politiche centrali per l’economia e la società dei prossimi decenni.
Le nostre comunità devono affrontare sfide globali, che incrociano la demografia (che non è semplicemente destino, ma va guidata da politiche di ampio respiro) con la rivoluzione digitale (che impatta sulla diffusione e la produzione di conoscenza oltre che sul nostro vivere quotidiano). Dobbiamo imparare a governare il cambiamento climatico e rispondere alla crisi di democrazia e pace che il mondo sta vivendo coinvolgendo più generazioni. Non solo pensando all’invasione della Russia nei confronti dell’Ucraina o, dall’altra parte del Mediterraneo, alla riesplosione, a partire dai tremendi atti terroristici di Hamas, dello storico e mai risolto conflitto israelo-palestinese, ma anche alle tante guerre che si continuano a combattere in ogni angolo della terra.
Secondo l’Uppsala Conflict Data Program (Ucdp), un programma di ricerca sui conflitti realizzato dall’Università svedese di Uppsala, nel mondo oggi si contano 170 conflitti. Sfide globali, che coinvolgono tutti: per essere analizzate e risolte richiedono nuovi talenti, abituati a ragionare con un approccio multidisciplinare e analitico, che abbiano come faro la sostenibilità, la diversità e l’inclusione. Senza dar spazio a questi talenti, appartenenti e portavoce delle generazioni emergenti, non riusciremo a rispondere alle sfide di oggi e di domani.
Francesco Billari
[ CORRIERE DELLA SERA ]