Gli occhi del mondo sono nuovamente rivolti alla penisola coreana, e questa volta non per il timore di una guerra, ma per la speranza di una distensione. La cerimonia di inaugurazione dei XXIII Giochi olimpici invernali a Pyeongchang, in Corea del Sud, è stata illuminata da un evento che non si era più ripresentato dal 2006: la sfilata degli atleti nordcoreani e sudcoreani sotto la bandiera della Corea unificata. Emozioni ancora più intense saranno quando il match di hockey femminile contro la Svizzera vedrà scendere in pista, per la prima volta nella storia, una squadra coreana unificata.
L’apertura annunciata dal leader nordcoreano nei confronti del governo di Seoul durante il consueto discorso di Capodanno ha risollevato l’interesse internazionale per un evento che rischiava di passare in sordina a causa della scarsa affluenza prevista e dei pesanti danni di immagine provocati dai continui strascichi dello scandalo di corruzione che ha coinvolto la ex presidentessa sudcoreana Park Geun-hye. Poco più di un mese fa invece questi Giochi sono diventati un banco di prova per la diplomazia regionale e internazionale, quando le due Coree hanno rilanciato un dialogo ufficiale dopo due anni di assoluto silenzio.
Difficile avanzare un’unica interpretazione di ciò che si cela dietro la decisione di Kim Jong Un. Se sul versante interno il prestigio della vetrina olimpica assolve alla costante necessità di rafforzare la legittimità del leader agli occhi del suo popolo, sul fronte esterno la distensione olimpica potrebbe permettere al regime di acquistare ulteriore tempo per procedere speditamente al raggiungimento dell’obiettivo finale, l’acquisizione di un deterrente nucleare credibile, dimostrando di essere in grado di colpire qualsiasi punto del territorio statunitense con un missile dotato di una testata nucleare. Lo aveva già trionfalmente annunciato al mondo all’indomani del test missilistico del 29 novembre scorso, ma in quell’occasione alcuni limiti tecnici avevano sconfessato le dichiarazioni ufficiali. Nonostante ciò, si tratta di un gap che presumibilmente gli scienziati di Pyongyang potrebbero colmare in un paio di anni, avendo già dato prova di compiere avanzamenti in ambito nucleare e missilistico a un ritmo decisamente superiore rispetto alle stime dalla comunità internazionale.
La maggior parte dei commentatori ritiene che l’intento di Kim sia quello di creare delle fratture nell’alleanza tra Corea del Sud e Stati Uniti e portare alla luce i differenti approcci delle due amministrazioni in merito alla gestione dei rapporti con Pyongyang. Dal canto loro, gli Stati Uniti non sembrano voler concedere spazio al rinnovato dialogo tra le due Coree affinché possa produrre qualche frutto. Per quanto Seoul e Washington si preoccupino di riaffermare lo stretto coordinamento e il sostegno ad una alleanza “di ferro”, nei fatti il dissenso emerge. Il vicepresidente Pence, alla vigilia del suo incontro con il presidente Moon, ha usato parole inequivocabili per definire la posizione della sua amministrazione rispetto alla tregua olimpica, ribadendo la volontà della sua amministrazione di continuare a “isolare economicamente e diplomaticamente la Corea del Nord” e annunciando imminenti nuove sanzioni contro Pyongyang “le più dure finora attuate dagli Stati Uniti”.
Dichiarazioni che non lasciano dubbi sul fatto che il presidente Trump non abbia la minima intenzione di sostenere una ipotetica svolta diplomatica, come confermato dalla perdurante assenza dell’ambasciatore statunitense a Seoul. A pochi giorni dalle Olimpiadi si è appreso che il quasi certo capo della diplomazia USA in Corea del Sud sarebbe stato escluso dalla corsa, probabilmente per aver espresso estremo scetticismo circa un possibile attacco preventivo ai danni di Pyongyang, pur essendo lui stesso un “falco” tra gli studiosi di Corea del Nord. Questa mossa ha acuito i timori che la quota di coloro che nello studio ovale sono a favore dell’opzione militare stia acquistando ulteriore credito rispetto a quella negoziale sostenuta dal Segretario di Stato Tillerson e dal rappresentante speciale per gli Affari nordcoreani, Joseph Yun.
La Corea del Nord ha sempre testato la propensione al dialogo dei vari presidenti sudcoreani e dopo otto anni in cui le amministrazioni conservatrici succedutesi alla Casa Blu avevano risposto con la massima intransigenza alla sua condotta erratica, oggi alla guida del paese si trova un presidente che per tradizione politica è propenso a sostenere un approccio conciliatorio. La visita di una delegazione nordcoreana di altissimo profilo, perché guidata da Kim Yo-jong, sorella e fidata consigliera del leader nordcoreano, nonché prima discendente diretta di Kim Il-sung a visitare il Sud dalla guerra di Corea (1950-53), è un’occasione a cui Seoul lavora da tempo. Moon Jae-in ha investito molto del suo capitale di credibilità politica ed è intenzionato a sfruttare pienamente questa finestra di opportunità per “espandere il dialogo con la Corea del Nord e ridurre le tensioni in merito al suo programma nucleare”.
La politica di Seoul è dunque tesa ad avanzare simultaneamente su un duplice binario – l’esercizio della pressione sul regime di Pyongyang attraverso le sanzioni per indurlo ad abbandonare il nucleare mentre mantiene aperta la porta del dialogo – ma è proprio questa impostazione che, come già accaduto in passato, potrebbe azzerare quanto finora raggiunto. Per quanto Pyeongchang rappresenti una parentesi estremamente positiva in termini di riduzione delle tensioni sulla penisola coreana, è necessaria cautela perché la storia dei rapporti inter-coreani è costellata da false partenze. Uno scenario in cui l’eventuale rilancio del dialogo inter-coreano possa esercitare effetti positivi sulla questione del nucleare nordcoreano appare estremamente improbabile. Il massimo che Seoul potrà ottenere da quelle che ha già ribattezzato “Olimpiadi della pace” sarà proprio non discutere ciò che Pyongyang non è disposta a trattare con il Sud, cioè il suo programma nucleare.
È Kim Jong Un a dettare le condizioni e non fa altro se non riaffermare quanto detto in quello stesso discorso di inizio anno in cui da un lato ha teso la mano a Seoul e dall’altro lato ha ribadito il suo netto rifiuto a percorrere il processo di denuclearizzazione. Resta da vedere se gli effetti della tregua olimpica sopravvivranno alla prossima prova rappresentata dalle esercitazioni militari che Seoul e Washington riprenderanno al termine delle Paraolimpiadi o se, come è solita fare in questi casi, Pyongyang le “celebrerà” con nuove dimostrazioni di forza.