lunedì, 25 Novembre 2024

P COME PUTIN. P COME PETROLIO? ORIZZONTE 2024

Luca Moneta ( ISPI )

Chi sedeva al Cremlino quando alla Casa Bianca c’era Bill Clinton? Vladimir Putin. Per avere un’idea, tra i coevi c’era anche Helmut Kohl, che è stato cancelliere tedesco fino al 1998 – solo un anno prima dell’insediamento di Putin – quando per 15 rubli si scambiava un marco tedesco. Diversamente dai “tre imperi” che, secondo un fortunato libro di Parag Khanna del 2008, hanno governato questa prima parte del XXI secolo (gli Usa di G.W. Bush, l’Unione europea e la Cina di Hu Jintao), la stabilità al potere si è rivelato uno dei principali punti di forza (e di debolezza) della Russia dal 1999 a oggi.

Dopo la conferma al Cremlino del maggio scorso, l’intenzione di Putin appare quella di preservare l’élite al potere oltre il 2024, dando la precedenza a istanze di sicurezza nazionale su crescita e produttività. L’ultimo mandato di Putin dovrebbe durare fino al 2024 quando avrà 72 anni. Proprio a maggio avevamo evidenziato come priorità per il Cremlino un prezzo del petrolio sufficiente a mantenere lo status quo e a consolidare un’ampia area d’influenza senza grandi voli di fantasia. Benché non sia il solo fattore a incidere sulle sorti del Paese, è bene ricordare che un prezzo del petrolio al di sotto dei 40 dollari per un periodo prolungato ha fatto da cornice al crollo dell’URSS negli anni di Michail Gorbaciov. Nel 2024, certo, Putin non potrà essere immediatamente rieletto per il vincolo dei due mandati, ma potrebbe non essere nemmeno così vecchio. Tra i Paesi ex-Urss è il terzo più longevo (includendo l’interregno di Dmitry Medvedev) dopo Nazarbayev in Kazakistan (quasi 27 anni ininterrotti) e Lukashenko in Bielorussia (24 anni).

Il mandato attuale di Putin, iniziato a maggio di quest’anno, si è aperto con alcune iniziative impopolari che hanno colto di sorpresa diversi operatori economici, istituzionali e l’opinione pubblica, come l’innalzamento dell’età pensionabile, il taglio ad alcune voci della spesa pubblica e l’aumento dell’IVA dal 18% al 20%. Queste misure sono state annunciate in estate, dopo aver confermato gli incarichi nei ministeri-chiave, a cominciare dal fedelissimo Medvedev, salvo poi essere parzialmente rimaneggiate in corso d’opera dopo le proteste di piazza (proibite nel corso dei Mondiali di calcio) e le prime elezioni regionali di inizio settembre, in cui diversi candidati pre-approvati dal Cremlino hanno registrato pesanti sconfitte.

La legge di bilancio, che contiene queste riforme ed entrerà in vigore nel 2019, rappresenta un’arma difensiva nei confronti di shock esogeni avendo come obiettivo di garantire il pareggio di bilancio per un prezzo del petrolio di 40 dollari per barile. Le maggiori entrate derivanti da un prezzo superiore dovrebbero essere convertite in valuta internazionale e confluire nel fondo sovrano, la cui consistenza oggi si aggira intorno ai 77 miliardi di dollari e dovrebbe arrivare a 95 miliardi nel 2023 secondo il FMI (più del 7% del Pil) per un prezzo medio del barile di 66 dollari1. La consistenza del fondo sovrano è scesa sotto gli 80 miliardi di dollari alla fine del 2014, dopo aver registrato una media di circa 90 miliardi nel quinquennio precedente. La correlazione tra Pil russo e prezzo del petrolio appare peraltro evidente dagli scostamenti della percentuale del fondo sul Pil, quasi speculari all’andamento del prezzo del petrolio.

Un fiscal breakeven a 40 dollari appare ambizioso e potrà essere a sua volta rimaneggiato: secondo uno studio recente, i Paesi che si dotano di una legge di bilancio la disattendono in quattro casi su cinque quando i prezzi delle materie prime crollano sul serio.

La narrazione della legge di bilancio può essere accolta come un segnale di apertura e stabilità fuori dal Paese, perché servirebbe a vendere meglio all’estero il rischio-Russia quando si tratta di calmierare il costo del debito e di attrarre finanziamenti. Mosca, tuttavia, ha dimostrato di mantenere anche negli ultimi anni un rapporto debito/Pil molto basso (oggi al 16%) e continua a guardare con attenzione agli investitori internazionali, in particolare nei settori ritenuti strategici. La riluttanza a cedere quote societarie in Gazprom, ad esempio, sta rallentando la realizzazione dei gasdotti – diversamente, ad esempio, da quanto fatto da Novatek, che ha lasciato entrare azionisti internazionali e ha potuto completare per tempo il primo progetto LNG nella Russia artica.

Rafforzando la tenuta del rublo e contenendo l’inflazione, la legge di bilancio muove invece nella direzione dell’autarchia economica, incentivando di fatto gli investimenti in valuta locale. Proprio la ritrosia ad aprire il sistema a nuovi investitori, la riduzione dei finanziamenti internazionali causata dalle sanzioni e l’arretratezza tecnologica in alcuni comparti dell’oil&gas potrebbero comprimere l’output complessivo di petrolio nell’arco di 4-5 anni, secondo un rapporto dello Skolkovo Energy Centre, che ha tra i propri sponsor diversi oligarchi russi.

Dal periodo blu al periodo rosa: dalla “sorpresa” per le sanzioni alle sanzioni come normalità

Sale il petrolio, sale anche il Pil? Non esattamente. Anzitutto, un prezzo del petrolio sopra le attese potrebbe causare un indebolimento della domanda globale con effetti rilevanti anche nel medio periodo – come già avvenuto nel 2014. In Russia, un barile sopra gli 80 dollari potrebbe accelerare sul versante economico l’uscita di scena di diverse raffinerie e avere un effetto pass-through, ossia di trasmissione nei confronti dell’economia reale, limitato, vuoi per i vincoli della legge di bilancio, vuoi per il deleveraging in valuta forte del settore industriale a causa dell’incertezza del quadro sanzionatorio. Al contrario, un ulteriore rialzo potrebbe accentuare, sul piano geopolitico, i tratti autoritari di quello che potremmo chiamare il “periodo rosa” di Putin: sopravvissuto al “periodo blu” (sanzioni, crollo del prezzo del petrolio e deprezzamento del rublo) e consolidati i conti, Putin potrebbe gestire la decadenza senza rinunciare a qualche eccesso.

I primi segnali sono arrivati dall’enfasi sull’insegnamento dei caratteri cirillici e della lingua russa nelle scuole delle regioni periferiche, in cui erano state reintrodotte lingue locali e adottato un alfabeto europeo, e soprattutto dalla stretta sulle autonomie locali. Ne è esempio il Tatarstan, l’ultima delle repubbliche autonome russe, il cui statuto speciale è stato lasciato scadere a fine 2017 da Putin e il cui presidente – l’unico funzionario pubblico a potersi fregiare di questo titolo oltre allo “zar” – potrebbe fare la stessa fine nel 2020, al termine del mandato (un altro caso di sopravvivenza istituzionale a vantaggio di Putin). Questi eccessi potrebbero essere moderati a livello locale, come avvenuto nelle recenti elezioni governatoriali, ma appare senz’altro prematuro prevedere una “rivoluzione silenziosa” in questo senso.

Non è tutto oro (nero) quello che luccica

Nonostante la dipendenza di Mosca dal petrolio, un prezzo del barile più alto non rappresenta automaticamente un fattore di crescita. Le sanzioni e l’incertezza sugli impatti di eventuali nuove misure hanno alimentato un flusso di capitali in uscita dalla Russia, che dovrebbe raggiungere i 66 miliardi di dollari nel 2018, più del doppio rispetto all’anno scorso (31,3 miliardi). L’ammontare di questi fondi d’emergenza dovrebbe essere quindi ben superiore rispetto alla consistenza dello stesso fondo sovrano.

L’andamento del rublo, per effetto dei flussi in uscita, è stato slegato dal petrolio nei primi otto mesi dell’anno: le quotazioni del rublo sul dollaro sono addirittura diminuite del 14% nel 2018, nonostante il Brent si sia apprezzato del 25%. Anche l’effetto pass-through del petrolio sull’economia è debole: il petrolio dall’inizio dell’anno ha aumentato il suo valore di circa un quarto, ma la crescita del Pil rimane tra l’1,5% e il 2%. Le ultime previsioni del Fmi indicano un’espansione dell’1,8%, mentre il resto dell’ex-Urss crescerà a velocità doppia (+3,8%).

Il clima di aleatorietà legato alle sanzioni, la personalizzazione delle stesse sui singoli oligarchi e il protrarsi delle negoziazioni nel caso Rusal stanno alimentando incertezza nelle decisioni di investimento, deleveraging dal dollaro da parte delle imprese e accumulo di rubli come buffer sul fronte interno per eventuali scenari peggiorativi. L’unica certezza appare ancora una volta Putin, il cui mandato termina dopo quello di Donald Trump (gennaio 2021), Xi Jinping (2023) e Jean-Claude Juncker (2019), quando diverse delle incognite presenti saranno risolte o si saranno definitivamente consolidate.

CODICE ETICO E LEGALE