«La festa non si vende», proclamano i sindacati del commercio che a Pasqua e Pasquetta tornano a scioperare in cinque differenti regioni italiane. Puntuale, proprio come le feste comandate, scatta così l’ennesima protesta contro le liberalizzazioni varate nel 2011 da Monti che hanno reso possibile l’apertura di negozi, supermercati e centri commerciali 24 ore su 24 e 7 giorni su 7.
Dopo la mobilitazione messa in campo nel 2013 dalla Confesercenti, con l’appoggio dei vescovi, in Parlamento alla fine della passata legislatura, soprattutto su iniziativa dei 5 Stelle, era stata approvata una legge che ripristinava le chiusure in 12 festività, con 6 possibili deroghe.
L’idea era quella di ripristinare le chiusure degli esercizi commerciali in occasione di tutte le festività più importanti, come Capodanno, l’Epifania, il 25 aprile, e poi Pasqua, Pasquetta, il Primo maggio, il 2 giugno, il 15 agosto, il primo novembre, l’8 dicembre, Natale e infine Santo Stefano. Prima di Natale Luigi Di Maio, già lanciatissimo in campagna elettorale, aveva addirittura rivolto un appello «a tutte le forze politiche», perché «il testo votato alla Camera all’unanimità» fosse approvato in via definitiva prima della fine della legislatura. Non se ne fece nulla e la legge morì in Senato.
I sindacati del commercio, invece, sono sei anni che si battono per cancellare il Salva Italia. «È indispensabile un intervento legislativo», sostiene la Filcams, secondo la quale «è ormai assodato che il sempre aperto non ha contribuito a migliorare né l’economia del settore, né l’occupazione, ma ha solo peggiorato le condizioni di lavoro, complicato la gestione dei piccoli esercenti, e trasformato il centro commerciale in luogo di ritrovo sociale e culturale in alternativa ai centri storici e della vita sociale delle città». Senza contare, poi, che in seguito alle azioni promosse dalla stessa Cgil, «la Corte Costituzionale ha già sancito il diritto di astenersi dalla prestazione nelle festività, riconoscendo quindi il diritto generale al godimento del giorno festivo».
Sul fronte opposto, Confimprese, che associa i grandi gruppi della distribuzione moderna, continua con la sua battaglia nel segno della «libertà di fare impresa» e insiste perché a Pasqua i negozi restino tutti aperti. «I consumi si stanno riprendendo – spiega il presidente Mario Resca – i turisti vengono a visitare le nostre città da tutto il mondo, ma noi non abbiamo nessuna politica sul turismo, nessuna cultura dell’ospitalità e nemmeno infrastrutture adeguate. Abbiamo uno dei tassi di disoccupazione giovanile più alto d’Europa: siamo così ricchi da buttare via l’opportunità di dare lavoro a chi non ne ha? E ancora parliamo di chiudere i negozi. È l’ennesimo controsenso di un Paese che ha dato il via al libero mercato, ma non si adegua alle esigenze del retail, il quale crea occupazione e fa girare l’economia».
Proteste da Nord a Sud
Tra domenica e lunedì i sindacati del settore, Filcams Cgil, Fisascat Cisl e UilTuc, hanno proclamato astensioni dal lavoro e scioperi in tutti gli esercizi di Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Puglia e Sicilia. Nel Lazio le tre sigle del commercio sciopereranno anche per il 25 aprile ed il 1 maggio, mentre in Sicilia hanno già aggiunto anche il 2 giugno. Dal Veneto, intanto, arriva la notizia che anche la Regione si sta mobilitando contro il Salva Italia: l’assessore regionale allo Sviluppo economico, Roberto Marcato, ha infatti annunciato di aver inviato a tutti i parlamentari veneti una richiesta formale perché le competenze in materia di aperture straordinarie nel commercio tornino alle Regioni e poter cosi regolamentare il settore. Proposta che ovviamente ha già il consenso di tutti i sindacati.