Ripiegati sul primo pilastro della previdenza, concentrati a discutere la quota 67, dal 2019, dell’età pensionabile, ci siamo persi per strada il resto. Colpevolmente. È innegabile che il futuro delle pensioni passi dalla coesistenza virtuosa di tre forme assicurative. Sulla prima, la più importante, alla quale è legata la sostenibilità dei conti pubblici, si litiga in questi giorni tra governo e sindacati. E non solo sul trattamento dei cosiddetti lavori usuranti. La seconda, quella della previdenza integrativa, avrebbe bisogno di una maggiore attenzione e di un rinnovato slancio. È finita in un incomprensibile cono d’ombra. La proposta di legge di bilancio per il 2018 non se ne occupa, a parte la possibilità di percepire con l’Ape volontaria, una parte del capitale della rendita integrativa (in sigla Rita). La precedente legge di bilancio, sulla falsariga di quello che sta avvenendo per i Pir, i Piani individuali di risparmio, aveva detassato i rendimenti degli investimenti dei fondi pensione a favore dell’economia reale. Come succede all’estero.
Decisioni diverse
La diffusione dei fondi integrativi di categoria, cioè chiusi o negoziali, ma anche per quelli aperti, proposti da banche e assicurazioni, venne incredibilmente ostacolata nel 2014 quando il governo Renzi decise di aumentare il livello di tassazione dei rendimenti dall’11,5 al 20%. In molti altri Paesi l’aliquota in fase di accumulo è zero. La misura si è riflessa sull’andamento degli iscritti che per i fondi chiusi sono (al 30 giugno 2017) 2 milioni e 666 mila e per quelli aperti un milione e 315 mila. La proposta di ripristinare condizioni più favorevoli, sotto il profilo fiscale, per la previdenza integrativa nella legge di Bilancio 2018 è stata bocciata. Avrebbe comportato un costo di circa 300 milioni di euro l’anno. Sarebbe stato però un buon investimento. In assenza di misure di rilancio dei fondi chiusi o aperti, si moltiplicano le offerte dei prodotti assicurativi come i Pip, i Piani individuali pensionistici, vecchi e nuovi, con gestioni separate degli attivi, cioè bloccati a favore degli aderenti, o più legati ai mercati finanziari. O altri prodotti del ramo terzo, polizze vita, unit linked e così via. Questa inerzia governativa lascia terreno fertile a banche, compagnie e reti che hanno però costi decisamente più alti sui quali non sempre vi è la necessaria trasparenza. L’assicurato sottovaluta piccole all’apparenza differenze percentuali che però proiettate su un arco di tempo di 30 anni possono falcidiare il capitale finale anche di un terzo.
I rendimenti e il confronto
Qualche esempio. Secondo l’ultimo rapporto Covip, l’autorità di controllo sui fondi pensione, il rendimento medio dei fondi negoziali, di categoria, nel 2016 è stato del 2,7%, al netto dei costi di gestione e dell’imposta sostitutiva. Per i fondi aperti eravamo al 2,2%. Per i nuovi Pip, cioè quelli successivi al decreto legislativo 252 del 2005, il rendimento medio è stato del 2,1%. Ma se confrontiamo i costi delle varie tipologie scopriamo differenze molto pronunciate. In qualche caso intollerabili. Con i dati a fine 2016 si possono calcolare, su un periodo di permanenza di 35 anni, tra 0,1 e lo 0,6% per i fondi negoziali; tra l’1,2 e l’1,4% per quelli aperti — che hanno comunque un onere di raccolta non essendo di categoria — mentre i Pip oscillano tra l’1,8 e il 3,5%. Questi ultimi, così propagandati dai gestori con allettanti proposte di investimento, possono costare fino a dieci volte di più di un normale fondo negoziale. Gli iscritti ai nuovi Pip, che non godono del contributo del datore di lavoro, al 30 giugno 2017, sono quasi 3 milioni. «La Covip è fortemente impegnata su questo fronte — dice il suo presidente l’economista Mario Padula — e facciamo di tutto per favorire una responsabile e trasparente valutazione dei costi». Da poco compare sul sito dell’Autorità un modello comparativo, finora utilizzato però quasi esclusivamente dai professionisti del settore. «Le forme negoziali hanno oneri generalmente più bassi dei fondi comuni e dei prodotti del risparmio gestito — continua Padula — non avendo problemi di collocamento e scegliendo gestioni passive».
Costi & controlli
La Covip ha i poteri di intervenire o si limita a una vigilanza di tipo cartolare, ex post? «Non sottovaluti l’importanza della scheda costi, in vigore dallo scorso giugno (http://www.covip.it/isc dinamico/), un documento assai complesso da redigere. Sono stati diversi i casi, anche recenti, in cui abbiamo utilizzato i nostri poteri di vigilanza e di controllo. Se vediamo dei disallineamenti, interveniamo tempestivamente». Nell’analisi di Padula emergono alcune preoccupazioni. Quella di garantire all’assicurato, con un’ informazione maggiore, la libertà di cambiare fondo o gestore, nella consapevolezza che una piccola svista oggi si può trasformare in un gigantesco danno al momento della pensione. In più in Italia — e questo dovrebbe essere un tema di discussione pubblica ma purtroppo non lo è — il secondo e il terzo pilastro tendono a confondersi. I fondi di categoria sono relativamente piccoli. E frenati, anche da incomprensibili resistenze sindacali, per esempio sulle opportunità di investimento. Troppa nostalgia dei titoli di Stato. Timori di perdere posti, incarichi. Il più grande fondo di categoria, Cometa dei metalmeccanici, gestisce appena 10 miliardi, mentre nel mondo operano autentici giganti previdenziali. Secondo Willis Towers Watson il valore dei 300 più grandi fondi pensione al mondo è cresciuto del 6,1% nel 2016. Cioè molto meglio dei nostri. Nella top list, non vi è un solo fondo pensione italiano, l’Enpam, dei medici, al 209esimo posto. «Negli altri Paesi — è l’opinione di Mauro Maré, presidente di Mefop, la società del ministero dell’Economia per lo sviluppo dei fondi pensione — tra il 40 e il 60% in media del patrimonio, e mi riferisco a Stati Uniti, Regno Unito, Olanda, Danimarca, Svizzera, è investito nell’economia reale. Noi oscilliamo incredibilmente tra l’1 e il 4%. Un modo di farci male da soli. Eppure stiamo parlando di una massa, nelle varie tipologie di fondi e casse, che oscilla intorno ai 250 miliardi».
Le opzioni
Come rilanciare questi strumenti? Secondo Maré va ripensata la regola del silenzio assenso con eventuale disdetta entro sei mesi. «La percentuale di adesione è troppo bassa. Intorno al 25%. In Olanda o nel Regno Unito si arriva, con il silenzio assenso e una formula di semiobbligatorietà, al 100% di aderenti. In alcuni Paesi la previdenza integrativa è obbligatoria, io sono contrario. E poi c’è la delicata questione fiscale. Noi le tasse, nel 2014, le abbiamo di fatto raddoppiate mentre all’estero i rendimenti sono esenti e il prelievo è solo sulle prestazioni finali. Va valutata inoltre la possibilità che un lavoratore, un professionista possa aderire a un fondo chiuso anche se estraneo alla categoria. Alcuni fondi sono troppo piccoli e dunque con costi di gestione percentualmente elevati. I più grandi Cometa e Fonchim hanno rispettivamente 450 mila e 300 mila aderenti. Sotto una certa soglia sarebbe necessario favorire delle fusioni. Non è poi accettabile quello che accade nelle piccole e medie aziende nelle quali se il dipendente chiede di versare a un fondo il proprio trattamento di fine rapporto, che vale in media il 7%, rischia addirittura il licenziamento». C’è molta strada da fare. Non solo nel gestire meglio il risparmio previdenziale ma anche nell’assicurare la tutela dei diritti dei più deboli.