Uno dei rischi maggiori dell’operazione militare turca contro i curdi nel nordest della Siria, dicono da giorni esperti e analisti, è far tornare lo Stato Islamico (o ISIS), o per lo meno creare le condizioni per una sua riorganizzazione più rapida. Lo Stato Islamico non è mai stato sconfitto definitivamente in Siria: lo scorso marzo perse l’ultimo territorio che controllava nel paese, nella città orientale di Baghuz, dopo mesi di guerra contro i curdi siriani appoggiati dagli Stati Uniti, ma riuscì a sopravvivere e a tornare ad agire in clandestinità tramite piccole cellule responsabili di attentati, estorsioni e sequestri.
Innanzitutto, ha scritto il giornalista Ben Hubbard sul New York Times, l’offensiva turca spingerà i combattenti curdi siriani a spostarsi verso nord, sul fronte di guerra, togliendo forze a sud, dove è più alto il rischio di un ritorno dell’ISIS. I curdi siriani controllano infatti un territorio molto grande, che si estende a est del fiume Eufrate fino al confine iracheno, e comprende zone dove l’ISIS era molto forte come la città di Raqqa, che fu la capitale siriana del Califfato Islamico per diversi anni.
Una mappa aggiornata della situazione nella Siria settentrionale e centrale. I curdi sono segnati in giallo, la Turchia e i suoi alleati in verde chiaro, i ribelli anti-Assad in verde scuro e il regime di Assad e i suoi alleati in rosso. L’offensiva turca sta avvenendo nelle zone di confine in giallo tra Turchia e Siria, da nord a sud (Liveuamap)
Lunedì le Forze Democratiche Siriane (SDF), coalizione di arabi e soprattutto curdi che negli ultimi anni ha combattuto contro l’ISIS a fianco degli Stati Uniti, ha diffuso un comunicato dicendo che abbandonare le operazioni anti-ISIS ancora in corso «potrebbe distruggere tutto quello che è stato raggiunto in termini di stabilità nel corso degli ultimi anni».
Non è solo una questione legata al numero di combattenti curdi spostati da una parte all’altra della Siria. Hassan Hassan, esperto dell’ISIS e analista del Center for Global Policy, ha detto al Guardian che le Forze Democratiche Siriane sono in possesso di informazioni di intelligence sull’ISIS aggiornate e ben documentate, a differenza della Turchia. Hassan ha aggiunto che le aree della Siria controllate dalla Turchia e dai suoi alleati – cioè il nordovest, sottratto ai miliziani dell’ISIS e ai curdi in diverse offensive tra il 2016 e il 2018 – sono estremamente corrotte, «più corrotte anche delle aree governate dal regime. L’ISIS non avrà problemi a comprarsi la lealtà di queste forze, pagando tangenti per poter scappare».
I rischi di un ritorno dell’ISIS sono legati anche a un altro aspetto, cioè la gestione dei circa 11mila miliziani del gruppo – 9mila siriani e iracheni e 2mila “foreign fighters”, i combattenti stranieri – detenuti nelle prigioni curde del nordest della Siria.
Se alcuni di questi miliziani dovessero riuscire a scappare, hanno fatto notare diversi esperti, sarebbe un grosso guaio per molti, tra cui diversi paesi europei che finora si sono rifiutati di rimpatriarli e processarli per i crimini commessi in Siria. Il rischio di fuga sembra essere concreto: giovedì alcuni funzionari curdi siriani hanno detto a Reuters che con l’aumento degli scontri tra curdi e Turchia molte guardie carcerarie curde assegnate alla sorveglianza dei detenuti dell’ISIS potrebbero essere trasferite sul fronte di guerra, lasciando scoperte le prigioni.
Il problema è che non sembra esserci un piano per la gestione dei detenuti dell’ISIS. Il presidente statunitense Donald Trump aveva inizialmente suggerito che la gestione passasse dai curdi alla Turchia, ipotesi però che ha moltissime criticità. Anzitutto, come ha notato Aaron Zelin, analista del centro studi statunitense Washington Institute for Near East Policy, sarebbe illusorio aspettarsi un trasferimento pacifico del controllo delle prigioni tra due forze che si stanno facendo la guerra. Inoltre, se anche la Turchia riuscisse a prendere il controllo delle carceri senza grossi problemi, ci sarebbe il rischio che il governo turco utilizzi i “foreign fighters” come strumento di ricatto nei confronti dei paesi di provenienza di questi miliziani, in particolare i paesi europei, per ottenere qualcosa in cambio.
Giovedì gli Stati Uniti hanno annunciato un piano parziale per affrontare il problema dei detenuti dell’ISIS più pericolosi: hanno detto di avere trasferito sotto il loro controllo due miliziani britannici dell’ISIS responsabili di torture e uccisioni di ostaggi occidentali, tra cui il giornalista statunitense James Foley, e di volersi assumere la custodia di diverse altre decine di detenuti considerati molto pericolosi. Per il momento però non ci sono altri dettagli e non è chiaro se il piano verrà effettivamente applicato e in che modo. Il giornalista del Foglio Daniele Raineri ha sottolineato come non sia facile stabilire la pericolosità di ciascun detenuto, anche perché molti miliziani dell’ISIS si trovano tra i detenuti comuni.
Lo stesso Trump non sembra avere le idee chiarissime sul tema: rispondendo a una domanda di un giornalista, giovedì Trump ha detto di non avere paura di una eventuale fuga dei miliziani dell’ISIS dal nord della Siria, perché nel caso succedesse la loro destinazione sarebbe l’Europa (e non gli Stati Uniti).
Oltre alla gestione delle forze militari curde e alla difficoltà di mantenere il controllo sui detenuti dell’ISIS, c’è poi da considerare un ultimo aspetto. L’ISIS ha dimostrato molte volte in passato di sapersi riorganizzare rapidamente in contesti di grande caos, con conflitti in corso e senza un’autorità centrale forte. L’instabilità provocata da una guerra prolungata tra Turchia e curdi siriani potrebbe favorire nuovamente l’emergere dell’ISIS, e non solo nei campi profughi già considerati a rischio, come quello di Al Hol, nel nordest della Siria, ma anche in diverse altre zone del paese a maggioranza sunnita.
FOTO AP Photo/Halit Onur Sandal
PERCHÉ LA TURCHIA RISCHIA DI FAR TORNARE L’ISIS
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