Un improvviso, quanto serio, problema nella qualità del greggio esportato verso i mercati dell’Europa orientale e centrale ha causato un effetto domino dalle proporzioni sinora mai registrate, perlomeno nel nostro continente. L’immagine della Russia come affidabile esportatore di petrolio verso i mercati europei ha subito un duro colpo e rischia di innescare processi di lunga durata, di cui è difficile prevederne ad ora i riflessi sui mercati e sulla politica di sicurezza energetica dei vari paesi coinvolti.
Il 19 aprile scorso, Gomeltransneft, la compagnia bielorussa incaricata delle operazioni dell’oleodotto Druzbha (“amicizia”), ha lanciato per prima l’allarme sulla possibile contaminazione dei flussi di idrocarburi provenienti da est. In particolare, alcuni test sul materiale presente nell’oleodotto ha rivelato la presenza di altissime concentrazioni, fino a 30 volte superiori al limite consentito, di organocloruro. Questo composto chimico è utilizzato principalmente per incrementare i livelli di produzione dei singoli pozzi e, in presenza di forti concentrazioni e/o alte temperature nei processi di raffinazione, può comportare seri danni all’equipaggiamento coinvolto.
A questo allarme ha poi seguito lo stop imposto da PERN, l’operatore del sistema di trasmissione polacco, in tutto il tracciato dell’oleodotto dal confine con la Bielorussia sino a Danzica. Tre giorni dopo anche il ramo sud dell’oleodotto, quello che si estende dal nord all’ovest dell’Ucraina e gestito da Ukrtransnafta, ha sospeso qualsiasi attività. Oltre ai mercati di Bielorussia e Ucraina, sono stati contestualmente interrotti i rifornimenti verso Germania, Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria.
La magnitudine di una contaminazione simile, mai registrata sino ad ora nei 27 anni di storia della compagnia, può essere compresa a fondo soltanto se si tiene conto che Transneft detiene il monopolio sulla distribuzione e trasmissione dei prodotti petroliferi in tutta la Federazione Russa. La rete di circa 68.400 km di pipeline fa di Transneft il più grande operatore al mondo. Nel 2018, circa l’83% dell’intera produzione di greggio russo è stata trasportata dalla compagnia, una quantità pari a circa 480 milioni di tonnellate di petrolio grezzo.
Di questo complesso sistema, l’oleodotto Druzhba è uno dei principali strumenti riservati all’esportazione di petrolio verso l’Europa. Costruito verso la fine degli anni ’60, ha rifornito costantemente i paesi dell’Europa orientale appartenenti al blocco sovietico. Le diramazioni di questa ragnatela di infrastrutture si espandono dal Mar Baltico al porto croato di Omisalj, sull’Adriatico e costituiscono un lascito dell’epoca in cui Mosca era garante politico ed economico della stabilità dei paesi attraversati. Alle propaggini estreme vi sono i porti commerciali di Rostock e Danzica, oltre che la città di Praga.
Determinare la quantità di petrolio contaminato è stato sinora impossibile, proprio per l’estensione delle infrastrutture coinvolte. Stando alle cifre trasmesse da Gomeltransneft, potrebbero essere stati compromessi sino a 5 milioni di tonnellate di petrolio, equivalenti a circa 1 mese di esportazioni dell’oleodotto Druzhba, per un valore complessivo attorno i 2,7 miliardi di dollari. La notizia della contaminazione del petrolio russo, unita alla risolutezza degli Stati Uniti nel sanzionare il programma di sviluppo nucleare iraniano, hanno comportato l’incremento del prezzo del Brent, salito a 74 dollari al barilelo scorso 22 aprile.
Uno smacco di dimensioni mai viste e che rischia di incrinare l’intera credibilità del settore più importante dell’economia russa. Nel 2018, l’export di idrocarburi ed energia è pesato per il 63,7% dell’intera bilancia nei commerci della Federazione Russa. Se si contano soltanto i paesi al di fuori della Comunità degli Stati Indipendenti questa percentuale sale al 67,6%. I proventi derivanti dall’esportazione di idrocarburi rappresentano non soltanto il pilastro essenziale su cui poggiano le finanze del Cremlino ma anche uno strumento determinante nella politica estera di Mosca. Ripristinare i flussi, ad ora fisicamente costretti verso l’Europa, è quindi doppiamente indispensabile.
A fare pubblica ammenda dell’accaduto è stato innanzitutto Nikolai Tokarev, il presidente di Transneft, convocato sommariamente a rendere conto della situazione direttamente al presidente russo Vladimir Putin. A quanto si apprende, la ragione ufficiale dell’incidente è da ricondurre ad alcuni piccoli produttori della regione di Samara, i quali avrebbero immesso di proposito ingenti quantità di prodotto compromesso dalla presenza di organocloruro direttamente nel sistema. I controlli di Transneft sono stati evidentemente inefficaci e il governo ha già annunciato nuove regolamentazioni e sanzioni per i trasgressori. L’FSB, i servizi segreti russi, responsabile dell’indagine, ha già arrestato i presidenti di Petroneft Aktiv, Magistral Oil e Nefteperevalka, compagnie di piccola rilevanza, operanti nella regione.
Le ricadute di quanto accaduto si intrecciano con le tensioni che sono intercorse nelle scorse settimane fra Mosca e Minsk. A causa di una riforma nella tassazione del settore petrolifero voluta dal governo russo, la Bielorussia ha visto una robusta discesa dei proventi derivati dal commercio di petrolio. Minsk è del parere che la stessa riforma sia contraria alle regolamentazioni dell’Unione Economica Eurasiatica, il soggetto politico attraverso cui la Federazione Russa intende proiettare la propria influenza su alcuni paesi chiave del proprio vicinato.
La Bielorussia è anche lo snodo principale dell’oleodotto Druzhba e la raffineria di Mozyr, la prima in cui è affluito il petrolio contaminato, la struttura in cui logicamente si aspetta di riscontrare il danno maggiore. Soltanto in termini commerciali Gomeltransneft calcola in 100 milioni di dollari le perdite dovute alla mancata esportazione di prodotti derivati dalla raffinazione.
Il 23 aprile, a pochissime ore dalla scoperta della contaminazione, i vertici di Belneftekhim, l’organizzazione che rappresenta il complesso petrolchimico bielorusso, hanno affermato di voler iniziare le importazioni di petrolio dai paesi baltici e dall’Ucraina entro la fine di quest’anno, in alternativa alle importazioni dalla Russia.
Lo stop alle importazioni imposto da Gomeltransneft ha anche avuto ricadute sulla fornitura di petrolio e prodotti raffinati verso l’Ucraina, interrotti per circa due settimane. Le nuove sanzioni sull’esportazioni di petrolio e carbone russo, le quali entreranno in vigore il primo giugno, rischiano ulteriormente di stringere il nodo agli approvvigionamenti di greggio. Una nuova dimostrazione della fragilità negli equilibri fra i diversi attori regionali, i quali, nonostante le reiterate velleità autarchiche, continuano ad essere fortemente interdipendenti.