sabato, 23 Novembre 2024

PIZZA, LA RIVINCITA DI NAPOLI SU EXPO

VITTORIO DEL TUFO (IL MATTINO)

Ricordate Expo Milano 2015? Oltre 20 milioni di visitatori, centinaia di Stati partecipanti, 5000 eventi in sei mesi. E un’occasione sprecata: la pizza. Avevano il tesoretto in casa, i signori dell’Expo: un prodotto universale ma dal contenuto identitario fortissimo, l’unico in grado di interpretare davvero, al di là delle chiacchiere, il titolo e lo slogan della kermesse: nutrire il pianeta. Avevano il tesoretto in casa, gli organizzatori del grande evento, ma non hanno capito niente. O forse non hanno voluto capire. E hanno risposto con un’alzata di spalle a quanti chiedevano di dare centralità e lustro alla pizza per dare centralità e lustro al Paese, alla sua cultura più autentica, alle sue tradizioni più vere, antiche e genuine.

Quello che non hanno capito i signori dell’Expo lo ha capito l’Unesco, riconoscendo la pizza come patrimonio culturale dell’Umanità. Oggi l’ingresso dei pizzaioli nell’Olimpo delle Arti suona anche come uno schiaffo alla miopia di una certa politica, assai piccina, che ha preferito (e preferisce) rincorrere le grandi filiere industriali, i grandi brand, i grandi interessi, senza comprendere che questo capolavoro dell’arte povera, in un mondo di piccole patrie, è riuscito a fare da collante e cemento all’identità collettiva di una comunità e di una nazione.

Nel riconoscimento dell’Unesco c’è l’orgoglio di un mondo artigiano che non ha smarrito il rapporto con la propria terra, con i colori e i sapori del Mediterraneo; viceversa ne resta ancorato, soprattutto del Mezzogiorno. Dietro la pizza non ci sono le grandi multinazionali, non c’è alcun McDonald’s, alcuna filiera nello scacchiere geopolitico del gusto. La pizza è un affare di popolo che trae origine dagli alimenti più sani dell’agricoltura italiana, il grano, l’olio, la mozzarella e il pomodoro: per questi motivi era e resta il più universale e unificante dei pasti – perché facilmente replicabile ovunque, e a basso costo – ma nello stesso tempo quello in cui meglio si esprime l’identità culturale di un territorio. Dunque è una cosa seria, serissima. Questo avrebbero dovuto capire i signori dell’Expo, che nel 2015 hanno pensato alla pizza solo perché c’erano da sfamare milioni di visitatori arrivati da ogni angolo del pianeta, derubricandola così a prodotto di catering, anziché elevarla a simbolo non solo di Napoli ma dell’Italia nel mondo.
Matilde Serao, nel Ventre di Napoli, raccontò dell’intuizione (e del fallimento) di un industriale napoletano che aveva pensato di aprire una pizzeria a Roma. «Sulle prime la folla vi accorse: poi andò scemando».

Per la Serao «la pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò». Non ce ne voglia donna Matilde, ma si sbagliava. O forse semplicemente non poteva immaginare, a quei tempi, il potere di seduzione planetario dell’impasto lievitato e schiacciato. Una splendida partitura musicale, per dirla con Marino Niola, che può essere eseguita in tantissimi modi e da chiunque. Oggi se c’è, tra i «commestibili che costano un soldo» un alimento destinato a sopravvivere e farsi largo nel mondo globalizzato delle multinazionali e delle grandi filiere industriali del cibo, ebbene questo è la pizza. L’unico vero pasto interclassista, democratico, trasversale, che guarda al mondo per nutrirlo, non per colonizzarlo; e che porta dentro di sé la fatica e la storia di generazioni di maestri fornai che hanno trasformato il sapore e il sudore di un popolo in patrimonio di tutti. E finalmente, da ieri, possono dirselo con orgoglio.


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