Manca meno di un anno alle prossime elezioni europee e poco più al cambio della guardia al vertice di tutte le istituzioni comunitarie. Tra maggio e dicembre 2019, l’Ue dovrà darsi nuovi presidenti dell’Europarlamento, della Commissione e del Consiglio europeo, un nuovo Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza e, ultimo ma non ultimo, un nuovo presidente della Banca centrale europea.
Le grandi manovre sono già iniziate, alla luce del sole ma soprattutto nell’ombra. E qual è il comune denominatore del lavorio e dei posizionamenti in corso, della discreta ricerca di alleanze e dei nomi in ballo per la nuova geografia del potere a Bruxelles? La probabile assenza dell’Italia. Detto altrimenti, tra un anno nessun italiano potrebbe occupare anche una sola delle cariche apicali dell’Unione.
Si può argomentare che una situazione come quella attuale sia piuttosto l’eccezione che non la regola, frutto di circostanze straordinarie e irripetibili: con Mario Draghi alla Bce, Antonio Tajani al Parlamento e Federica Mogherini al posto di Alto Rappresentante, l’Italia è stata sicuramente sovra-rappresentata in questi anni nella nomenklatura comunitaria. E ciò giustifica le rivendicazioni oggi avanzate da altri Paesi. Ma non è un valido motivo per cedere il campo su tutta la linea. Soprattutto di fronte a un’altra dinamica che sembra prendere forza: l’intensa azione diplomatica di Berlino per assicurarsi le posizioni strategiche.
La domanda viene spontanea: sta pensando il nuovo governo italiano a tutto questo? Ha la nuova maggioranza, così pronta (non senza ragioni) a inveire contro Bruxelles matrigna e indifferente, un piano o una linea d’azione quanto meno per limitare i danni, evitando una completa marginalizzazione? Quale partita vogliono giocare Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i due dioscuri dell’esecutivo, che non sia solo quella della ribellione euroscettica?
Che alla Farnesina sia andato un profondo conoscitore dei meccanismi europei e abile negoziatore come Enzo Moavero, è rassicurante. Ma senza una strategia delle alleanze e idee precise sugli obiettivi da perseguire, senza un coraggioso approccio bipartisan capace di mettersi alle spalle i veleni e le divisioni dell’eterna campagna elettorale, non andremo lontano.
Anche perché, come dicevamo, i giochi sono in fase avanzata. Prendiamo la Commissione europea, per esempio. Il campo dei papabili è già affollato. Se passerà nuovamente il metodo degli Spitzenkandidat, osteggiato però da Macron e visto con freddezza da Angela Merkel, in pole position per i popolari europei è il bavarese Manfred Weber, attuale capogruppo al Parlamento europeo, che nei giorni i scorsi ha ospitato nella sua Monaco tutto il gotha del Ppe, da Merkel a Sebastian Kurz. A contendergli il posto c’è però anche il francese Michel Barnier, capo dei negoziati sulla Brexit.
Se poi il Ppe dovesse finalmente orientarsi per una donna, ai blocchi sono pronte Ursula von der Leyen, attuale ministro della Difesa della Germania, e Christine Lagarde, presidente del Fondo monetario internazionale. Bisogna farlo notare? Un’altra tedesca e un’altra francese. Certo anche Antonio Tajani in teoria potrebbe giocare una sua partita per la nomination, ma non avrebbe più l’appoggio cruciale della Cdu come in occasione della sua elezione a Strasburgo. E le nostre fonti rivelano anche un’altra manovra segreta in corso: alla fine della fiera il vero candidato in pectore di Angela Merkel alla successione di Jean-Claude Juncker sarebbe in realtà il suo fedelissimo ministro dell’Economia, Peter Altmaier. In questo caso Weber potrebbe consolarsi con la presidenza dell’Europarlamento.
Certo anche nel campo socialista ci sono già candidati potenziali: si è detto pronto il vice-presidente slovacco della Commissione Maros Sefkovic. In ballo sono anche l’attuale commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, l’ex candidato alla cancelleria Martin Schulz e con qualche chance in più la stessa Federica Mogherini. Ma il paesaggio di macerie della sinistra europea suggerisce che quella del Pse sarebbe una candidatura di bandiera, o meglio di testimonianza.
Per la guida del Consiglio europeo, si profila la silhouette del premier olandese Mark Rutte, in nome del fatto che la famiglia liberale in questi anni è stata fuori dai giochi di vertice. Quanto alla Banca centrale, è nota l’offensiva tedesca per portare il falco Jens Weidmann al posto di Mario Draghi. Ma a spuntarla potrebbe essere il presidente della Banca centrale finlandese, Erkki Liikanen. Due nomi, Rutte e Liikanen, a conferma del consolidamento di un fronte nordico.
Come ammoniva Mikhail Gorbaciov, «la vita punisce chi arriva in ritardo». Forse è il caso che il nuovo governo italiano cominci ora a inventarsi qualcosa nella grande partita per i futuri assetti europei.