Alla base delle proteste sempre più partecipate che stanno investendo l’Algeria ci sono due ragioni: la decisione dell’anziano e malato presidente Abdelaziz Bouteflika di ricandidarsi per un quinto mandato alle elezioni del prossimo 18 aprile, e le condizioni socio-economiche sempre più gravose per la popolazione. Mentre i manifestanti chiedono una svolta democratica e posti di lavoro, nonché l’uscita di scena di Bouteflika, i principali gruppi di opposizione appaiono ancora divisi e impreparati a cogliere questa occasione. Ma anche il regime lascia trasparire una situazione di confusione interna: ne è dimostrazione la mancata nomina di un successore in grado di condurre il Paese verso un processo di transizione credibile. La stessa lettera letta domenica dalla TV di stato, in cui Bouteflika promette che in caso di vittoria indirà una conferenza nazionale incaricata di fissare nuove elezioni presidenziali – a cui lui non parteciperà – e di elaborare una riforma della Costituzione da approvare tramite referendum popolare, appare una concessione ancora insufficiente a calmare la voce delle proteste. Cosa aspettarsi ora? Le elezioni di aprile possono cambiare qualcosa? Il governo algerino è davvero pronto a venire incontro alle richieste dei manifestanti? E quali riforme politiche ed economiche sarebbero necessarie per far fronte alla crisi del Paese?
Le proteste: perché?
Da ormai dieci giorni l’Algeria sta vivendo un livello di mobilitazione e proteste popolari come non succedeva dalla fine degli anni ‘80, quando moltissimi giovani scesero in piazza per manifestare contro il carovita, la crescente disoccupazione e le politiche di austerità promosse sotto la presidenza di Chadli Bendjedid. In tutte le principali città del Paese, comprese Oran, Constantine, Tizi Ozou e Sétif, centinaia di migliaia di persone, soprattutto studenti, intellettuali e varie categorie di lavoratori, hanno invaso le strade chiedendo a gran voce l’uscita di scena del presidente Bouteflika – candidatosi per un quinto mandato alle imminenti elezioni presidenziali – ma anche libere consultazioni e politiche più efficaci contro la persistente crisi economica. Con la disoccupazione giovanile vicina al 30% e la percezione di una diffusa corruzione nelle istituzioni, l’annuncio della ricandidatura di Bouteflika, anziano ed incapacitato da un grave malore sofferto nel 2013, ha di fatto innescato un’ondata di sdegno diffuso: la decisione è stata infatti recepita dalla popolazione come l’umiliante imposizione di uno status quo da parte di un’élite privilegiata ed incapace di far fronte ai bisogni del Paese, viste anche le minori leve economiche causate dalla diminuzione dei prezzi dell’energia iniziata nel 2014. Mentre a Khenchela, cittadina del nord-est, i manifestanti hanno strappato diverse immagini del presidente, ad Algeri gli studenti urlavano “l’Algeria vuole il cambiamento” insieme a centinaia di giornalisti che invocavano “una stampa libera e democratica”. Le rose donate simbolicamente dai manifestanti alle forze di polizia non hanno però evitato duri scontri in diverse località che hanno causato un morto e oltre 200 feriti, inducendo il governo a mettere in guardia da eventuali strumentalizzazioni sovversive e dal rischio di un’escalation sulla scia di quella siriana.
Gli idrocarburi non bastano, quali misure economiche?
Come evidenzia Clara Capelli, la diminuzione del prezzo del petrolio degli ultimi anni ha messo alla prova le finanze pubbliche, obbligando il governo a prendere una serie di controverse misure tra il 2016 e il 2017, a partire da un forte contenimento della spesa pubblica e un impopolare aumento della pressione fiscale, comprese l’IVA e le accise sul carburante. Parallelamente, la crescita dell’inflazione ha ulteriormente deteriorato il potere d’acquisto della popolazione, che per i propri consumi (anche alimentari) dipende dalle importazioni dall’estero, soggette in questi anni a una serie di restrizioni dovute anche alla contrazione delle finanze pubbliche. Già all’inizio del 2017 gli algerini avevano fatto sentire il proprio malcontento in alcune zone della Cabilia. Il governo, ben conscio della criticità della situazione nell’imminenza delle elezioni, ha adottato una linea più conciliante e prudente nelle finanziarie 2018 e 2019, ma le condizioni economiche del Paese rimangono strutturalmente critiche al di là delle misure congiunturali. Il tasso di disoccupazione si attesta intorno all’11% e la crescita reale del PIL pro capite rimane stagnante. A ciò si aggiunge un tasso di partecipazione attiva alla forza lavoro di appena 41% – troppo basso per il profilo demografico della popolazione (nel 2018 il 54% dei cittadini aveva meno di 30 anni e il 45% meno di 25) –, chiaro indizio della presenza di una considerevole economia informale, tendenzialmente associata a occupazioni a bassissimo valore aggiunto e a retribuzioni modeste e instabili.
Abdelaziz Bouteflika: quale legittimità?
Nonostante le proteste di questi giorni, comunque, la figura di Abdelaziz Bouteflika è stata a lungo rispettata e apprezzata per il ruolo avuto nel processo di pacificazione che ha permesso all’Algeria di uscire da una sanguinosa guerra civile protrattasi per tutti gli anni ’90, oggi ricordati come la “decade nera”. Bouteflika, che ricoprì il ruolo di ministro degli esteri tra il 1963 e il 1978, era uscito dalla scena politica fino al 1999, quando, come candidato indipendente sostenuto dall’esercito, venne eletto presidente e diede inizio ad un percorso di riconciliazione politica interna e di riforme economiche volto a risollevare le sorti del Paese. Promuovendo il rafforzamento della presidenza a scapito dei vertici militari, Bouteflika ha favorito una maggiore centralizzazione del potere ma anche l’ascesa di una ristretta cerchia di imprenditori che ha ben presto monopolizzato l’iniziativa economica dello stato, strettamente ancorata all’esportazione degli idrocarburi. Nel contempo, i vertici delle forze di sicurezza sono stati più volte sostituiti e resi compiacenti verso la presidenza, anche grazie ad una serie di benefit e posizioni remunerative nel settore privato. Il sostegno reciproco tra queste varie componenti è cruciale per la stabilità del regime, e spiega come mai l’apparato di sicurezza, tramite il Capo di Stato Maggiore Ahmed Gaid Salah, abbia espresso scetticismo verso le proteste, pur mantenendo un profilo distaccato rispetto agli avvenimenti politici in virtù del suo ruolo di garante della stabilità interna.
Verso le elezioni: per cosa si vota?
L’Algeria è formalmente una repubblica presidenziale. Il 18 aprile si vota per eleggere il nuovo presidente, carica che si rinnova ogni cinque anni. Al di là della forma politica bisogna tener presente il fondamentale ruolo dell’esercito, di cui il Front de Libération Nationale (FLN) è sostanzialmente l’emanazione politica, che sin dalla sua creazione ha plasmato la vita politica algerina e su cui si basa buona parte della legittimità del governo. Il popolo algerino appare sempre più sfiduciato verso la leadership del governo, come dimostrano anche le numerose proteste di questi giorni. Questo trend di disaffezione era già visibile nelle elezioni precedenti: l’affluenza alle ultime elezioni presidenziali del 2014 era stata molto bassa (49,4% rispetto al 74,6% del 2009), come anche quella alle parlamentari del 2017 (intorno al 37%). Inoltre, secondo l’indice stilato da Freedom House, l’Algeria non è un Paese libero, sia per quanto riguarda i diritti civili che per quelli politici, a cui si aggiunge una politica repressiva verso la libertà di stampa, specialmente se in chiave anti-governo, e nei media, che sono monopolio dello stato. Sebbene nel parlamento algerino esista il multipartitismo, a causa della scarsità di influenza e mezzi dei candidati dell’opposizione le elezioni risultano comunque indirizzate verso la vittoria di Bouteflika. Durante le ultime presidenziali del 2014, agli osservatori internazionali era stato negato l’accesso ai registri elettorali e secondo le opposizioni il conteggio dei voti era stato gonfiato a favore del presidente, in aggiunta ad altre irregolarità riportate dai votanti (come per esempio l’uso delle risorse statali per favorire il candidato del regime e il voto di scambio). Inoltre, benché l’Alto Commissariato Indipendente per il Controllo delle Elezioni sia deputato a monitorare le tornate elettorali e prendere in carico eventuali reclami, l’autonomia di tale organo risulta compromessa dal fatto che i suoi membri siano selezionati direttamente dalla presidenza.
L’insieme di questi fattori mette in evidenza la mancanza di vere alternative politiche al candidato prescelto dal regime, un problema che alimenta in questi giorni le frustrazioni dei manifestanti.
Quale opposizione?
L’opposizione all’attuale regime algerino rimane frammentata e limitata dal controllo pervasivo delle autorità sui mezzi d’informazione, come dimostrano le accese proteste dei giornalisti e la successiva ondata di arresti condotta dalle forze di sicurezza. Le proteste degli ultimi giorni, tuttavia, confermano il ruolo cruciale dei social media nel convogliare e promuovere le istanze di cambiamento, un ruolo che potrebbe presto diventare una carta molto preziosa per i dimostranti poiché potrebbe avere un impatto determinante sull’evoluzione della situazione interna. Se si considera il contesto politico, i principali gruppi e partiti di opposizione non sono riusciti a colmare le proprie divergenze e a trovare un accordo per presentare un unico candidato, mentre le poche alternative all’attuale presidente non godono della necessaria base di sostegno popolare necessaria per sperare nella vittoria. Tra i più importanti aspiranti alla poltrona presidenziale spiccano Ali Ghediri, ex generale delle forze armate, il quale, ambiziosamente, si è detto pronto a “conquistare la presidenza e a rimettere l’Algeria sulla retta via” e Abderrazak Makri, leader del Movimento della Società per la Pace, considerato il principale partito conservatore algerino. Il mondo religioso, di cui Makri è uno dei principali portavoce, è apparso altrettanto diviso a proposito delle proteste. Se, da un lato, diversi imam si sono espressi contro le proteste – probabilmente vincolati dalla lettera con cui il ministro degli Affari religiosi, citando alcuni versetti del Corano, ha intimato ai predicatori di non fomentare le manifestazioni – altri hanno rifiutato di allinearsi, mentre in alcune località sono stati i fedeli ad abbandonare la preghiera per unirsi ai manifestanti.
Attori esterni: quali interessi?
Relativamente agli eventi di queste settimane, anche gli interessi degli attori esterni all’Algeria sono importanti: in particolare quelli dei paesi europei, ma anche di Russia e degli Stati Uniti. I primi temono che un’eventuale destabilizzazione dell’Algeria possa mettere a repentaglio l’approvvigionamento energetico, in particolare di gas naturale. Il fabbisogno energetico europeo è infatti garantito per il 12% dal gas algerino. Per paesi come Spagna e Italia la percentuale cresce ulteriormente – rispettivamente 27% e 36% – senza contare i numerosi investimenti e interessi di compagnie come Repsol ed Eni, che hanno di recente siglato accordi di esplorazione e di ampliamento della capacità estrattiva con la società di stato algerina Sonatrach. Per la Russia, un cambio di regime in Algeria potrebbe significare la perdita di un’importante fetta di mercato in termini di esportazioni di materiale militare, dato che l’Algeria rappresenta il terzo acquirente di armamenti russi a livello mondiale. Recenti colloqui tra ufficiali russi e algerini hanno previsto, tra l’altro, possibili investimenti per la creazione di un impianto di produzione della società automobilistica Lada nel Paese nordafricano. Per quanto concerne gli Stati Uniti, il principale timore di Washington è che la destabilizzazione dell’Algeria possa creare un vuoto nella strategia di lotta al terrorismo nella regione, che rimane il principale obiettivo dell’amministrazione di Donald Trump.
Quali scenari?
Per la prima volta dal 2010-2011, quando le primavere arabe hanno lambito ma non toccato il Paese, l’Algeria sembra attraversare una fase di importante turbolenza. Le proteste di queste settimane sembrano segnare il fallimento di un sistema di gestione del potere incentrato sulla figura del presidente Abdelaziz Bouteflika, ma gestito da una élite composta di politici, militari e burocrati di stato consolidatasi in buona parte grazie alla rendita degli idrocarburi, ma con una legittimità (che trovava fondamento nella vittoria contro le forze islamiste radicali degli anni Novanta) oggi sempre più debole e meno riconosciuta. La riproposizione della candidatura di Bouteflika sembra dimostrare come gli equilibri interni al regime siano precari e i cambiamenti vengano percepiti come un azzardo: piuttosto che scommettere su un uomo nuovo, il regime preferisce reiterare se stesso sperando di avere sufficiente forza e credibilità per conservare lo status quo. Nel frattempo, però, le condizioni economiche continuano a deteriorarsi e gli introiti che permettevano politiche di sussidio si fanno più esigui. Le leve sulle quali il governo può agire sono sempre più scarse. A causa delle chiusure politiche, il Paese sembra essersi precluso – almeno per il momento – la possibilità di una vera e propria transizione dal modello “rentier” statalista verso un sistema più diversificato e aperto all’economia di mercato. Difficile pensare che in queste condizioni le sole promesse di non ricandidarsi più e di una Costituzione riformata possano fermare le proteste. Difficile pensare al contempo che possa essere trovata nell’arco di tempo proposto una figura alternativa credibile che possa reggersi sullo stesso sistema di potere. Al di là delle proteste, l’Algeria sembra quindi attraversare una crisi complessa e sistemica, la cui soluzione non è ad oggi affatto scontata.