La crisi a Hong Kong sta diventando sempre più grave, con l’aumento degli episodi di violenza durante le proteste. Il governo del territorio semi-autonomo cinese se ne rende conto, ma si considera ancora capace di gestire la situazione senza l’aiuto di Pechino.
Per la prima volta, il capo esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, ha rilasciato dichiarazioni sugli scontri durante la giornata di protesta di domenica, durante la quale sono stati sparati colpi di pistola e usati idranti e lacrimogeni contro i manifestanti. La governatrice ha detto che l’uso della violenza è ammissibile per fermare l’ondata di proteste.
LA LINEA DEL G7
Davanti al rischio di un’escalation a Hong Kong, i leader del G7 riuniti a Biarritz hanno lanciato un appello per rispettare l’autonomia di Hong Kong ed evitare l’aumento della violenza: “Il G7 riafferma l’esistenza e l’importanza della dichiarazione sino-britannica del 1984 su Hong Kong e lancia un appello a evitare le violenze”, si legge di una dichiarazione congiunta presentata alla fine del vertice.
Considerazioni che hanno provocato un forte scontento a Pechino. Secondo l’agenzia France Presse, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Geng Shuang ha ripetuto che la situazione nell’ex colonia britannica è una questione interna cinese e che “nessuno Stato, organizzazione o individuo ha il diritto di commettere un’ingerenza”.
UNA CRISI STORICA
In una conversazione con Formiche.net, Enrico Fardella, professore di Storia delle relazioni internazionali alla Peking University, ha spiegato la dimensione storica della crisi a Hong Kong e delle tensioni con Pechino: “È la manifestazione tellurica, una delle tante, dell’ascesa della sfera di influenza cinese. Se l’esplosivo è stato accumulato dalla storia, le ragioni di ordine economico – ossia le disparità e l’alto costo della vita – sono state la miccia e il tema dell’estradizione la scintilla”.
LA QUESTIONE TAIWAIN
Ha aggiunto che l’orizzonte delle rivendicazioni dei manifestanti è, infatti, ormai molto più ampio: “Si serve della formula ‘un Paese e due sistemi’ sancita dagli accordi sino-britannici del 1984 e dalla Basic Law di Hong Kong per richiedere riforme elettorali e politiche che puntano a rafforzare l’autonomia di Hong Kong rispetto al governo di Pechino”. Governo che si muove secondo un orizzonte diametralmente opposto, secondo Fardella: perché “il mantenimento del controllo di Hong Kong è funzionale alla riunificazione con Taiwan e al completamento della riunificazione nazionale obiettivo storico della missione del Partito Comunista cinese”.
INTERVENTO MILITARE?
Sul probabile aumento delle pressioni da parte di Pechino – e il degenerare della situazione -, Fardella ricorda che la Xinhua ha detto che si tratta di una “rivoluzione colorata”, cioè, le recenti violenze rivelano un’escalation che deteriora l’estetica del movimento e potrebbe motivare un intervento della Pla (Esercito popolare di liberazione): “Non credo, tuttavia, che a Pechino ci sia interesse all’uso della forza. Se ciò accadrà sarà il segno che si è raggiunto un punto di non ritorno con effetti che andranno ben al di là di quello scenario”. In quel caso, come ha spiegato l’esperto, Hong Kong, che “è già una variabile nella guerra liquida in corso tra Washington e Pechino” sui dazi; potrebbe diventare un elemento più determinante.
LO SGUARDO GLOBALE
E perché Hong Kong non ha più peso nell’agenda delle questioni geopolitiche e di sicurezza a livello internazionale? “Un ‘endorsement’ pubblico da parte dei leader occidentali sarebbe percepito come un’interferenza palese negli affari interni della Cina popolare – ha sostenuto Fardella – e ciò aggraverebbe la situazione e la tensione contro la parte più genuina del movimento”. I fattori che suggeriscono la cautela sono tanti: “Trump ha sottolineato il suo supporto a una soluzione pacifica e ‘umana’ del problema ma bisognerebbe capire quali misure gli Usa prenderebbero qualora ciò non accadesse. Dopo gli eventi dell’89 Washington si affrettò a prendere le misure necessarie per evitare che le relazioni bilaterali – allora alquanto positive – degenerassero. Ma oggi il contesto è ben diverso”.
CONSEGUENZE ECONOMICHE
Gli effetti globali di un’escalation della crisi a Hong Kong sarebbero non solo politici. Secondo Fardella, “le conseguenze economiche potrebbero essere rilevanti qualora gli Stati Uniti portassero avanti l’ordine esecutivo che porterebbe a una proibizione alle aziende americane di fare affari con aziende cinesi, o anche impedire a quelle cinesi di mantenere la registrazione alla borsa americana o anche se collegassero la crisi di Hong Kong all’acquisto degli yuan sui mercati offshore per contrastare la svalutazione dello yuan e disattivare in tal modo parte delle difese del governo cinese contro i dazi Usa”.