venerdì, 29 Novembre 2024

Quei conti senza il voto

Paolo Mieli [ CORRIERE DELLA SERA ]

E se decidessimo di non votare mai più? C’è un’Italia che in modo ogni giorno più esplicito auspica un futuro post elezioni politiche con assetti più o meno simili a quello attuale. Mario Draghi dovrebbe restare a Palazzo Chigi per il resto dei suoi giorni, meglio se sostenuto da una maggioranza più profilata. Viene evocata, a tal fine, la formula «Ursula», cioè l’intero centrosinistra (grillini inclusi) con l’aggiunta, complementare, di Forza Italia.

Sostengono, i fautori di questa ipotesi, che centrodestra e centrosinistra da soli e devastati da litigi non sarebbero all’altezza dei compiti incombenti sul futuro governo. Perciò, con l’introduzione di un sistema proporzionale, si potrebbe ottenere che nessuno dei due fronti conquisti la maggioranza dei seggi e, di conseguenza, pronube le «forze» di centro , si r icongiungerebber o i partiti che nel luglio del 2019 votarono per la von der Leyen alla presidenza della Commissione europea.

Tutti assieme darebbero vita ad un esecutivo assai simile all’attuale che però escluderebbe la Lega e sarebbe così dotato della stabilità adatta ad affrontare un quinquennio che si annuncia pieno di occasioni ancorché assai complicato. Beninteso il tutto — e lo si dice esplicitamente — dovrebbe restare sotto la guida di Draghi. Secondo questo schema gli italiani voterebbero sì, tra un anno o due, per le politiche, ma l’effetto delle elezioni sarebbe, per così dire, fortemente mitigato. Di fatto la consultazione servirebbe solo a ridefinire le quote ministeriali dei partiti di maggioranza. Per il resto tutto resterebbe com’è stato deciso prima del voto. Anzi, come è adesso .

È un’idea molto interessante che — è evidente — ha come presupposto un sincero afflato di apprezzamento per l’opera dell’attuale presidente del Consiglio. Anche se tra i sostenitori di questa prospettiva si può scorgere qualcuno che, nel nome della luminosa prospettiva, intende più prosaicamente ostruire la strada che tra gennaio e febbraio 2022 potrebbe portare Draghi alla presidenza della Repubblica. Ma i più — tra i quali molti che furono ultras del maggioritario, diventati ora combattivi proporzionalisti — sono davvero animati dalla preoccupazione che un assetto governativo diverso da quello attuale precipiti l’Italia in un caos. Una confusione inadatta ad accogliere e gestire i fondi provenienti dall’Europa per una felice ripresa dopo la depressione pandemica.

A margine di questi ragionamenti è però doveroso fare tre considerazioni. La prima è sui presupposti di queste suggestioni. Non fanno distinzione, i fautori del prolungamento dello status quo, tra lo stato in cui versano centrodestra e centrosinistra. E se è realistico immaginare un futuro assai problematico per il fronte salvinian-meloniano (che pure, stando ai sondaggi, dispone ancora di un buon serbatoio di voti) molto è cambiato in quello lettian-contiano. Nel senso che la leadership Pd sull’intero fronte antidestra è allo stato delle cose fuori discussione. E questa leadership dispone di ex presidenti del Consiglio (a cominciare dallo stesso Enrico Letta) nonché di un personale governativo del tutto rispettabile. Quanto all’influenza del M5S su questo versante sarebbe più o meno identica in entrambe le combinazioni: centrosinistra votato dagli elettori o «Ursula» intesa come «Ulivo super allargato» (a Berlusconi).

Ci sarebbe poi, come difetto della suggestione ursuliana, l’idea di adottare, ancora una volta, l’ennesima, un sistema elettorale scelto per favorire l’esito voluto dalla maggioranza che lo approva. E destinato perciò stesso ad essere mutato non appena sarà finita l’attuale emergenza. È una peculiarità — quella di modificare ogni tre o quattro anni il sistema di voto in funzione dei risultati auspicati da chi decide il cambiamento — che ci rende unici al mondo. Unicità che fin qui mai si è tradotta in invidia. Nessuno, in preda a un raptus di ammirazione, ce li ha copiati i nostri sistemi elettorali. Strano, dal momento che non sono stati pochi.

C’è infine un ultimo, trascurato, problema. D’accordo, siamo una repubblica parlamentare e i governi li decidono capo dello Stato e Parlamento. Ma l’idea di non volere più coinvolgere, neanche marginalmente, il corpo elettorale nella scelta di chi ci dovrà guidare e di aver come unica missione quella di determinare i rapporti di forza tra i partiti, potrebbe rivelarsi poco adatta a combattere l’astensionismo e a riavvicinare gli elettori alla politica. A maggior ragione se a chi è destinato a guidare il futuro governo sarà risparmiato l’onere della propria candidatura.

La sinistra e il centro hanno già commesso un peccato in questo senso nel 1994 quando tennero di riserva Carlo Azeglio Ciampi, non disponibile a candidarsi, e opposero al debuttante Silvio Berlusconi un improbabile (come capo del governo) Achille Occhetto. Berlusconi ebbe un clamoroso successo e fu in grado di dar vita ad un governo forse anche in virtù della sia pur indiretta investitura popolare. La sinistra, a quei tempi, capì la lezione e si riprese due anni dopo quando riuscì anch’essa ad offrire al proprio elettorato un candidato autentico per la guida di un esecutivo: Romano Prodi.

Dopo oltre un decennio in cui il nostro Paese non ha più beneficiato di questo genere di investiture indirette e che — forse anche per effetto di ciò — ha dovuto faticosamente digerire diverse ondate antisistema, sarebbe consigliabile una certa prudenza prima di avviarci lungo la via del coinvolgimento del corpo elettorale solo per chiedergli di confermare lo stato di cose esistente.

Paolo Mieli
[ CORRIERE DELLA SERA ]

Illustrazione di Doriano Solinas