L’illuminista Cesare Beccaria, nel suo noto saggio “Dei delitti e delle pene” scriveva che «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa».
Pensiero tornato drammaticamente di attualità nei giorni contrassegnati da tifo da stadio sull’ergastolo ostativo e sul regime carcerario del 41 bis, dai cori e dalle urla che si levano in ogni dove, Parlamento compreso, per generalizzare fatti e situazioni che invece richiedono un esame caso per caso, pur se i casi siano quelli di Alfredo Cospito o Matteo Messina Denaro. Persone anche loro, non cose.
Lo dice la Costituzione, lo suggerisce il buon senso, l’impone l’umanità spesso smarrita di una collettività forte con i boss mafiosi quando finalmente hanno le manette i polsi e però tanto deboli da consentire – non necessariamente per connivenza – agli stessi boss di attendere per 30 anni, vivendo semplicemente nel proprio paese, il momento dell’apposizione di quelle manette.
Non si tratta di mettere in discussione il regime penitenziario speciale del carcere duro, diventato dal 1992, l’anno delle stragi, uno strumento ineludibile della guerra alla mafia ma quanto meno di prendere atto della difficoltà esistente nel districarsi tra funzioni manifeste e latenti di questo regime detentivo, sempre in bilico tra giustizia e vendetta.
Nato come misura emergenziale, il 41 bis è diventato cardine del sistema a tempo indeterminato, richiedendo adeguamenti per scongiurare alcuni rischi di incostituzionalità, data la stridente incoerenza con il principio rieducativo della pena.
Il carcere duro consiste in un catalogo di limitazioni volte a ridurre la frequenza dei contatti con l’esterno degli esponenti di vertice delle organizzazioni criminali o terroristiche, per evitare che, dal carcere, continuino a comandare. Si tratta dunque di uno strumento preventivo (ed infatti è applicato indistintamente a persone condannate o in attesa di giudizio), che mira a isolare la persona dal resto dell’organizzazione criminale, ma vista la rigidità del suo contenuto, è evidente che assuma anche un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto allo status di privazione della libertà.
Un regime detentivo che si definisce “duro”, non può non evocare l’idea di un sistema intransigente che mira a “far crollare” (anche sul piano psicofisico) chi vi viene sottoposto, puntando, sempre in forma latente, alla “redenzione”, cioè alla collaborazione con la giustizia. Proprio l’effettiva “collaborazione” fa venir meno l’applicazione di questo regime. Ma se la “collaborazione” è un obiettivo sicuramente nobile, più perplessità genera l’auspicata “redenzione”.
Nonostante, a distanza di anni, l’emergenza terroristica sia venuta meno – avendo nel frattempo assunto la criminalità organizzata le forme più diverse e manifestandosi cronicamente negli ambiti più inusuali, dal pubblico al privato, in settori anche istituzionali – ad oggi ancora, il 41 bis e il nucleo di disposizioni ad esso collegato, rappresentano “simbolicamente” gli strumenti normativi per eccellenza con cui lo Stato ha deciso di combattere la criminalità organizzata, come se cercasse dall’esecuzione penitenziaria, quindi, ormai ex post, risposte che, a livello istituzionale, il diritto penitenziario non è in grado di fornire e non dovrebbe nemmeno essere chiamato a dare.
Secondo la Costituzione la pena deve tendere – anche per questi tipi di autore, senza alcuna distinzione di tipo soggettivo – alla finalità rieducativa, intesa come servizio pubblico, da cui lo Stato non può mai rescindere, o come obbligazione positiva, per la Corte europea dei diritti dell’uomo, per cui lo Stato deve comunque assicurare, in ogni caso, una forma di trattenimento penitenziario conforme alla dignità umana della persona (essendo la stessa affidata alle sue cure) e un tipo di trattamento rieducativo che possa fornire, quanto meno a livello di speranza, concrete ed effettive possibilità di reinserimento sociale.
È evidente, dunque, come istituti ispirati alle logiche della pura neutralizzazione (anche se motivata da ragioni primarie di sicurezza e difesa sociale) stridono con un ordinamento costituzionale (e convenzionale) che aspira ad essere anche uno Stato di diritto e sociale, con una propensione, quindi, naturale (e ontologica) verso l’adempimento di obbligazioni positive a tutela degli individui, sia come singoli sia come parte di una più ampia comunità sociale di riferimento, senza alcuna distinzione.
Risulta palese, pertanto, come il dibattito odierno sul 41-bis e il tifo da stadio che lo contrassegna impedisca di cogliere a pieno tutte le importanti sfaccettature del regime di detenzione speciale, precludendo, inoltre, una più ampia e seria riflessione che tenga conto delle importanti ricadute del regime sul sistema normativo (e politico) di lotta alla criminalità organizzata, all’interno di un ordinamento che si ispira pur sempre ai principi cardine della dignità della persona umana.
Mimmo Mazza
[ LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO ]