Quando il primo febbraio dello scorso anno, in occasione della cerimonia d’apertura del trentesimo vertice dell’Unione africana, i leader del continente dichiararono il 2018 l’Anno africano della lotta alla corruzione, sembravano armati di ogni buona intenzione per contrastare questo flagello che produce un gigantesco spreco di risorse finanziarie e umane.
Purtroppo, l’Indice di percezione della corruzione 2018 (Cpi), pubblicato dall’ong Transparency International, dimostra che la nobile iniziativa intrapresa dall’organismo di Addis Abeba non si è ancora tradotta in risultati positivi concreti.
Il Cpi 2018, basato su 13 inchieste di valutazione realizzate da esperti sulla corruzione nel settore pubblico, presenta un quadro molto preoccupante per l’Africa sub-sahariana, dove solo 8 paesi sui 49 hanno ottenuto un risultato superiore ai 43 punti relativi alla media globale, in una scala che assegna un punteggio da 0 (altamente corrotto) a 100 (per niente corrotto).
Da quanto emerge nella speciale graduatoria, le isole Seychelles con 66 punti su 100, si posizionano al 28esimo posto e ottengono il primato di nazione meno corrotta del continente. L’arcipelago dell’oceano Indiano è seguito nella classifica da Botswana, Capo Verde, Rwanda e Namibia, che hanno ottenuto rispettivamente 61, 57, 56 e 53 punti.
La posizione della Nigeria, che il prossimo 16 febbraio sarà chiamata a eleggere un nuovo presidente, rimane invariata rispetto al 2017, con un punteggio di 27. Così come era avvenuto nel 2015, la corruzione è uno dei maggiori temi che domina la campagna elettorale. Per questo, l’amministrazione guidata dal presidente uscente Muhammadu Buhari negli ultimi tre anni ha intrapreso una serie di iniziative che, tuttavia, non hanno ancora prodotto i risultati sperati.
Nell’ultima posizione dell’indice è posizionata la Somalia, che con soli 10 punti si conferma per il settimo anno consecutivo come il paese più affetto in assoluto dalla metastasi sociale della corruzione. La nazione del Corno d’Africa è immediatamente seguita dal Sud Sudan con 13 punti, un risultato assai deludente che vede i due Stati africani, in compagnia della Siria, relegati agli ultimi due posti del Cpi.
Da segnalare, che dalla 161esima alla 172esima posizione troviamo ben otto paesi sub-sahariani: Repubblica democratica del Congo, Angola, Ciad, Repubblica del Congo, Burundi, Guinea Equatoriale, Guinea Bissau e Sudan. Mentre alcuni paesi come Burkina Faso, eSwatini e Costa d’Avorio, pur avendo migliorato i loro punteggi, mostrano ancora alcune criticità.
C’è anche da evidenziare che, sul piano globale, con un punteggio medio di 32, l’Africa sub-sahariana è la regione con il risultato più basso dell’indice, seguita da vicino dall’Europa orientale e dall’Asia centrale, dove si registra una media di 35.
Nel complesso, lo studio determina che l’Africa sub-sahariana rimane una regione caratterizzata da forti contrasti politici e socio-economici, oltre ad annose sfide che minano il suo sviluppo e la sua stabilità. Mentre un cospicuo numero di paesi ha già adottato principi democratici di governance, molti altri sono ancora dominati da leader autoritari e semi-autoritari. E i regimi autocratici, insieme a conflitti civili, istituzioni deboli e sistemi politici poco sensibili al problema, continuano a minare gli sforzi intrapresi a livello regionale nel contrasto alla corruzione.
Il report evidenzia inoltre come le Seychelles e il Botswana, che hanno il punteggio più alto rispetto ad altri paesi della regione, hanno alcune caratteristiche in comune. Come quella di aver saputo realizzare sistemi democratici e di governance relativamente ben funzionanti, che contribuiscono ad elevare i loro punteggi. Un’eccezione, finora, nel continente.