martedì, 26 Novembre 2024

Riforme in Europa, non solo in Italia

Sergio Fabbrini (il Sole 24 ORE)

L’Italia ha sviluppato un rapporto di dissonanza con l’Europa. Siamo uno dei Paesi fondatori dell’Unione europea (Ue). Abbiamo sostenuto il processo di integrazione europea per decenni con un consenso diffuso nel Paese. Eppure, a partire dalla crisi del 2008-2009, la percentuale di italiani che non si fidano dell’Ue è risultata sistematicamente superiore a quella di coloro che si fidano (55 e 36 rispettivamente, secondo l’Eurobarometro di novembre 2018). Secondo i sondaggi del Parlamento europeo (Parlametro del settembre 2018), l’Italia risulta addirittura il Paese più euroscettico (dopo la Repubblica Ceca) dell’Ue. È vero che una chiara maggioranza di italiani (63%) continua ad essere favorevole all’euro, tuttavia quella maggioranza era dell’87% quando l’euro cominciò a circolare all’inizio dei Duemila (Eurobarometro dell’autunno 2018).

L’istituto italiano di sondaggi Ipsos ha fotografato la dissonanza italiana in questi termini. Maggioranze considerevoli di italiani ritengono che l’Ue ci abbia reso più moderni, più importanti sulla scena internazionale, più sicuri, più giusti e più ricchi. Eppure, la fiducia degli italiani nell’Ue è diminuita più o meno costantemente negli ultimi 10 anni (passando dal 73% nel marzo 2010 al 37% nel febbraio 2019). Come si può spiegare tutto ciò? La risposta ce la fornisce l’Eurobarometro del novembre scorso, secondo il quale ben 2/3 degli italiani ritiene che «l’Europa non ci ascolti». E non ci ascolta sui temi che sono per noi prioritari (l’immigrazione, la crescita economica e la disoccupazione giovanile).

Come affrontare una simile dissonanza?

In primo luogo, riconoscendola. Naturalmente, l’Italia non è ascoltata dall’Ue per le sue debolezze interne. La difficoltà dell’Italia a convergere verso l’equilibrio predominante nel regime delle politiche pubbliche europee è certamente dovuta alla resistenza della nostra politica, delle nostre istituzioni e della nostra società a realizzare le riforme necessarie (e impopolari) per adeguare il Paese alla logica dell’interdipendenza. Tuttavia, in quella dissonanza ci sono ragioni che nascono anche all’esterno dell’Italia. Ovvero sono dovute alla specifica configurazione (istituzionale e di policy) che ha assunto l’Ue nel corso delle crisi multiple dell’ultimo decennio. Limitiamoci all’Eurozona. Sul piano della policy, si è affermato un approccio che ha privilegiato la stabilità piuttosto che la crescita. Sul piano istituzionale, si è imposto un modello di governance intergovernativa che ha finito per condizionare le scelte di bilancio nazionali, in assenza però di meccanismi di riequilibrio sul piano sovranazionale. Tale regime si è dimostrato congruente con le strutture di political economy dei Paesi del Nord, molto di meno con quelle dei Paesi del Sud. Tant’è che (come riporta l’Eurobarometro del novembre scorso) anche il 57% degli spagnoli e il 51% dei francesi (la percentuale è addirittura del 79% nel caso della Grecia) ritengono che il loro Paese «non è ascoltato dall’Ue».

Le percentuali sono esattamente rovesciate nel Nord Europa (dove, per esempio, solamente il 27% dei tedeschi ritiene che il proprio Paese non sia ascoltato dall’Europa). Insomma, occorre riconoscere che la logica dell’Eurozona non è neutrale, che la sua struttura di funzionamento è congeniale con alcune economie e non con altre. Ciò non ha impedito ad alcuni Paesi del Sud (come il Portogallo e la Spagna) di crescere assecondando quella logica. Tuttavia, nel percorso, hanno dovuto pagare costi sociali così alti che non possono essere considerati fisiologici.

Se così è, in secondo luogo, allora la dissonanza italiana non può essere affrontata con un approccio ortopedico. Certamente l’Italia deve “essere raddrizzata” con le necessarie riforme strutturali (di cui non si vede traccia, però, nell’azione dell’attuale Governo), ma anche l’Europa deve rivedere il suo modello di governance. In un recente paper, basandosi sui sondaggi sopra riportati, Andrea Montanino e Ferdinando Pagnoncelli hanno proposto un’Agenda di riforme europee (che il futuro Parlamento europeo potrebbe realizzare) per ridurre la dissonanza italiana. L’Italia ha un interesse al completamento del mercato unico nei settori della politica energetica e digitale. Inoltre, viste le resistenze tedesche al completamento dell’unione bancaria, l’Italia ha anche un interesse a realizzare un mercato unico dei capitali, così da allargare le fonti di finanziamento per le attività economiche e industriali del nostro Paese.

Il Parlamento europeo dovrebbe anche promuovere una nuova politica industriale, tenendo presente che la concorrenza è sempre di più tra l’Europa e attori globali come la Cina e gli Usa, piuttosto che tra i singoli Paesi europei. Ma soprattutto il Parlamento europeo dovrebbe sollecitare una riforma della governance dell’Eurozona (anche se qui l’ultima parola ce l’hanno i Governi nazionali). L’Eurozona deve dotarsi di un suo budget, derivato da una fiscalità diretta, con cui sostenere le politiche di contrasto alla disoccupazione e di sostegno alla crescita, che costituiscono (appunto) due delle tre priorità degli italiani.

Insomma, la dissonanza italiana ha anche cause esterne. Queste ultime, per essere affrontate, richiedono strategie coalizionali coerenti con i nostri interessi nazionali. Intervistando i membri dei parlamenti nazionali dell’Italia, della Francia e della Germania, Massimo Bordignon e i suoi colleghi hanno rilevato come i parlamentari italiani e francesi abbiano opinioni convergenti sulla riforma dell’Eurozona, nonostante la divergenza partigiana tra i Governi dei loro Paesi. Eppure, il Governo italiano è non solo un avversario di quello francese, ma è addirittura un alleato dei Governi nazionali sovranisti che sono contrari alla riforma dell’Eurozona (oltre che al completamente del Mercato unico). E i parlamentari italiani, che rappresenteranno i due partiti di Governo nel prossimo Parlamento europeo, si collocheranno in raggruppamenti sovranisti che saranno all’opposizione della maggioranza di quest’ultimo (e del suo programma di riforme). Così, invece di ridurre la dissonanza, l’attuale Governo e i suoi futuri parlamentari stanno lavorando per accentuarla.


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