giovedì, 28 Novembre 2024

Rileggendo una pagina di Norberto Bobbio sul rapporto tra morale e politica

Michele Magno [ START MAGAZINE ]

Vecchio tema e sempre nuovo, quello del rapporto  tra morale e politica. Norberto Bobbio vi ha dedicato decine di saggi, molti dei quali sono stati selezionati e curati da Marco Revelli in un volume dei Meridiani Mondadori (“Etica e politica. Scritti di impegno civile”, 2009). Qui riproduciamo il capitolo finale di un testo dallo stesso titolo, apparso per la prima volta sulla rivista MicroMega nel 1986.

 Come ha osservato Francesco Totaro, il rapporto tra politica e morale, nella vicenda della modernità, è caratterizzato da un dualismo persistente tra le due sfere. Bisogna essere disposti a sacrificare il bene morale se si vuole realizzare il bene politico. L’arte della simulazione e della dissimulazione, la capacità di fare apparire ciò che non si è e di non fare apparire ciò che si è, prende il posto dell’obbligo di trasparenza.

 Bobbio, usando indifferentemente i termini di etica e di morale, introduce subito un’annotazione dal carattere “estremo” riguardo al rapporto dell’etica con la politica: “Per quanto […] la questione morale si ponga in tutti i campi della condotta umana, quando viene posta nella sfera della politica assume un carattere particolarissimo”. Da cosa dipende questo “carattere particolarissimo”? Dal fatto che si potrebbe dubitare che sia plausibile porsi il problema della moralità riguardo alla condotta politica. Addirittura, si potrebbe arrivare a sostenere la “legittima” immoralità della politica stessa, se tale vuol essere.

In sostanza: la politica o è immorale o non è. Allora c’è da chiedersi, usando ancora le parole di Bobbio, “se abbia un qualche senso porsi il problema della liceità o illiceità morale delle azioni politiche”. Del resto, dalla “lezione della storia e dell’esperienza comune” non sarebbe difficile trarre “l’insegnamento del divario tra morale comune e condotta politica”, al fine di “dare una giustificazione del fatto, di per se stesso scandaloso, del contrasto evidente” tra le due dimensioni.

 Senza dilungarci nel resoconto fornito da Bobbio, basti ricordare che la sua analisi culmina nel riferimento a Machiavelli, esponente della visione dualistica del rapporto tra etica e politica sulla base della considerazione fondamentale che nell’agire politico il fine che conta è costituito da quella “gran cosa” che è “vincere e mantenere lo stato”; tale fine rende quindi strumentali, e non giudicabili in sé stesse, le azioni che a esso concorrono. Le azioni utili allo scopo politico possono essere non morali, ma, si badi bene, il politico non vuole ciò che non è morale in quanto immorale (questo sarebbe diabolico); egli piuttosto si adatta a scegliere procedure e atteggiamenti non morali (crudeltà invece che pietas, infedeltà invece che lealtà, doppiezza invece che integrità, più in generale: l’essere disposti a “intrare nel male” qualora si sia costretti a farlo), in quanto il proprio scopo, diversamente, sarebbe disatteso.

 Un’ultima considerazione. Chi è, allora, il grande politico? Evitando di cadere nella retorica del capo, si potrebbe dire che grande politico è colui che è in grado di interpretare e rappresentare una grande politica. E in che cosa consiste qualcosa degno del nome di grande politica? Essa non va confusa con una politica “grandiosa” o affetta da manie di grandezza: per grande politica  si deve  intendere, né più né meno, che il perseguimento non di un governo qualsiasi (questo può pure essere imposto dalle circostanze per evitare mali peggiori, come si dice oggi per giustificare il Conte bis), ma piuttosto il perseguimento del buon governo.

 Si tratta in sostanza di “non accontentarsi di qualsiasi fine o di qualsiasi risultato, ma di qualificare il fine in rapporto al bene perseguibile di una convivenza soddisfacente e partecipata” (Totaro).  Questo non esimerà affatto dal misurarsi con il calcolo dei mezzi, come quando ci si infervora invece nella declamazione di fini destinati a rimanere lettera morta; permetterà piuttosto di non assumere i mezzi per il loro carattere conveniente a un risultato qualsiasi, come quando si cade nella retorica del fare per il fare. Permetterà, quindi, di valutare e selezionare i mezzi in rapporto alla qualificazione del fine. In altre parole, mezzi qualificati per fini altrettanto qualificati. La mancanza della qualità del fine apre la strada alla bassa cucina dei mezzi (o a mezzi da bassa cucina). La mancanza della qualità dei mezzi apre la strada alla corruzione del fine. 

Il problema della legittimità del fine

Tutte queste domande non sono una risposta, ma fanno capire in quale direzione si deve cercare la risposta, e questa direzione non è quella dell’idoneità dei mezzi ma quella della legittimità del fine. Un problema non esclude l’altro ma si tratta di due problemi diversi e conviene tenerli ben distinti. Il problema dell’idoneità dei mezzi si pone quando si vuol dare un giudizio sull’efficienza del governo, che è chiaramente giudizio tecnico e non morale. Ma un governo efficiente non è di per se stesso un buon governo. Il giudizio di efficienza serve tutt’al più a distinguere il governo dal non governo, non serve a distinguere il buongoverno dal malgoverno.

Questo giudizio ulteriore non si accontenta del raggiungimento del fine ma si pone la domanda: quale fine? Riconosciuto come fine dell’azione politica la salvezza della patria o l’interesse generale o il bene comune (contrapposti alla salute del governante, agli interessi particolaristici, al bene proprio), il giudizio non più sull’idoneità dei mezzi ma sulla bontà del fine è un vero e proprio giudizio morale, anche se, per le ragioni che vengono addotte da tutte le teorie giustificazionistiche, di una morale diversa o in parte diversa dalla morale comune, in base alla quale vengono giudicate le azioni degli individui singoli.

Il che vuol dire che, pur tenendo conto delle ragioni specifiche dell’azione politica, la cosiddetta «ragion di Stato», che evoca episodi sinistri per il cattivo uso che se n’è fatto, ma di per se stessa indica unicamente i caratteri distintivi dell’etica politica, l’azione politica non si sottrae affatto, come ogni altra azione libera o presunta libera dell’uomo, al giudizio di lecito e illecito, in cui consiste il giudizio morale, e che non si può confondere col giudizio di idoneo o inidoneo.

Si può porre lo stesso problema anche in questi termini: ammesso che l’azione politica abbia in qualche modo riguardo alla conquista e alla conservazione del potere, del massimo potere dell’uomo sull’uomo, l’unico potere cui si riconosce, se pure in ultima istanza, il diritto di ricorrere alla forza, ed è ciò che distingue il potere di Alessandro da quello del pirata (che questo diritto non ha), nessuna delle teorie giustificazionistiche, qui illustrate, considera la conquista e la conservazione del potere come bene in se stesso. Nessuna ritiene che lo scopo dell’azione politica sia il potere per il potere. Per lo stesso Machiavelli l’azione politica «immorale» (immorale rispetto alla morale dei «pater noster») è giustificata soltanto se ha per fine le «grandi cose», o «la salute della patria».

Perseguire il potere per il potere vorrebbe dire trasformare un mezzo, che come tale deve essere giudicato alla stregua del fine, in un fine in se stesso. Anche per chi considera l’azione politica come un’azione strumentale, essa non è strumento per qualsiasi fine che all’uomo politico piaccia perseguire. Ma una volta posta la distinzione fra un fine buono e un fine cattivo, una distinzione cui non è sfuggita alcuna teoria del rapporto fra morale e politica, è inevitabile distinguere l’azione politica buona da quella cattiva, il che significa sottoporla a un giudizio morale.

Valga un esempio. Il dibattito sulla questione morale riguarda spesso, e in Italia prevalentemente, il tema della corruzione, in tutte le sue forme, previste del resto dal codice penale sotto la rubrica dei reati di interesse privato in atti di ufficio, di peculato, di concussione, eccetera, e specificamente, con riferimento quasi esclusivo a uomini di partito, il tema cosiddetto delle tangenti. Basta una breve riflessione per rendersi conto che ciò che rende moralmente illecita ogni forma di corruzione politica (tralasciando l’illecito giuridico), è la fondatissima presunzione che l’uomo politico che si lascia corrompere abbia anteposto l’interesse individuale all’interesse collettivo, il bene proprio al bene comune, la salute del proprio io e della propria famiglia a quella della patria. E ciò facendo sia venuto meno al dovere di chi si dedica all’esercizio dell’attività politica, e abbia compiuto un’azione politicamente immorale.

Il discorso sarebbe finito qui se in uno Stato di diritto, com’è quello della Repubblica italiana, dalle condizioni di salute della quale sono nate queste mie riflessioni, oltre al giudizio sull’efficienza e a quello morale o di morale politica, come ho cercato di spiegare sin qua, non si desse sull’azione politica anche un giudizio più propriamente giuridico, vale a dire di conformità o meno alle norme fondamentali della Costituzione cui l’esercizio dell’azione politica anche da parte degli organi superiori dello Stato è sottoposto.

Tra le varie accezioni di Stato di diritto mi riferisco a quella che lo definisce come il governo delle leggi contrapposto al governo degli uomini, e intende il governo delle leggi nel senso del moderno costituzionalismo. Anche gli Stati assoluti potevano essere considerati governi delle leggi in contrapposto ai governi tirannici, in quanto anche il monarca assoluto, nonostante l’antica formula romana «princeps legibus solutus», era sottoposto alle leggi naturali e divine, ma solo con le moderne costituzioni il limite legale al potere del sovrano (di coloro che in vario grado e in varia forma esercitano il potere sovrano) è stato istituzionalizzato e si può parlare con più ragione in questo caso di Stato di diritto.

Il giudizio sulla maggiore o minore conformità degli organi dello Stato, o di quella parte integrante del potere sovrano che sono i partiti, alle norme della Costituzione e ai princìpi dello Stato di diritto può dar luogo al giudizio, che risuona così frequente nel nostro dibattito politico, di scorrettezza costituzionale e di pratica antidemocratica, il che accade, per fare qualche esempio, nel caso dell’abuso dei decreti legge, di appello al voto di fiducia unicamente per evitare il pericolo dei franchi tiratori che si avvalgono del voto segreto per infrangere la disciplina di partito e, per quel che riguarda i partiti, nella pratica del sottogoverno, che viola uno dei princìpi fondamentali dello Stato di diritto, la visibilità del potere e la controllabilità del suo esercizio.

Anche se spesso la polemica politica non distingue i vari giudizi e li pone tutti e tre sotto l’etichetta della «questione morale», i tre giudizi, quello di efficienza, quello di legittimità e quello più propriamente morale (che si potrebbe anche chiamare di merito), sul quale esclusivamente mi sono soffermato, debbono essere tenuti distinti per ragioni di chiarezza analitica e di attribuzione di responsabilità.

Michele Magno
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