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Rosario Livatino, giudice martire, e quella lezione per le toghe di oggi

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Rosario Livatino, giudice martire, e quella lezione per le toghe di oggi

È una voce potente che viene da un tempo lontano: «Il giudice deve offrire di sé stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile». Sembra un’ovvietà. E invece la lezione di Rosario Livatino risuona sempre più originale e attuale in questi giorni di rinnovata tensione tra le toghe, di battaglia tra correnti, di nuovi corvi e vecchi veleni attorno al Csm. Non era certo un ingenuo il giovane magistrato siciliano: «Nessuno può contestare al giudice il diritto di ispirarsi (…) a determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni politiche».

Era ben consapevole che dentro la toga c’è un uomo con le proprie passioni e convinzioni. Eppure: «Essenziale è però che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della auto-collocazione nell’area di questo o di quel gruppo politico o sindacale». Perché il giudice non deve solo essere terzo: deve anche apparire tale, rassicurando così il cittadino di non trovarsi davanti un avversario politico o a un agit-prop mascherato.

La beatificazione

In queste ore il «giudice ragazzino», assassinato da una «stidda» mafiosa il 21 settembre 1990, viene beatificato per volere di papa Francesco proprio nella Agrigento del suo martirio. Oggi avrebbe quasi 69 anni, più o meno la stessa età dei suoi colleghi famosi che si sbranano tra loro sui giornali e nei talk. Da quei suoi colleghi non si pretende santità: basterebbe un po’ di buonsenso. La lotta inesausta tra toghe sindacalizzate suggerirebbe un passo indietro verso la compostezza, premessa dell’indipendenza e dell’equilibrio di cui parlava Livatino nel 1984 discutendo in un convegno proprio del ruolo del giudice nella società che cambia.

Due scandali assai gravi e ravvicinati, come il «sistema Palamara» e la presunta «loggia Ungheria» evocata da una fonte opaca quale l’avvocato Amara, squassano l’organo di autogoverno della magistratura ma, soprattutto, diffondono nella comunità un’immagine molto ingiusta del lavoro prezioso di tanti magistrati. La magistratura patisce del resto un’intossicazione pluridecennale in un Paese dove nulla si chiude mai davvero. La guerra civile si è trascinata almeno fino agli anni Ottanta. E neppure Tangentopoli si è mai conclusa: proseguita per trent’anni con un andamento carsico, è sempre riemersa come lotta tra giustizialisti e garantisti, tra adepti di una corrente e affiliati di un’altra, sempre col sospetto tra i cittadini che le decisioni possano rispondere a logica di parte invece che a quell’autonoma «meditazione sul caso concreto» di cui parlava Livatino. I referendum radicali sulla giustizia, rilanciati ora da Salvini, potrebbero impattare sull’opera riformatrice della Guardasigilli Cartabia, che necessita di tempi più lunghi e animi meno agitati. Il leader leghista parla anche di una riforma del Csm, ovviamente tutta da precisare.

È un tema eterno come la fabbrica del duomo, non privo di derive pericolose nella sua storia quali la proposta di «armonizzazione» del Consiglio superiore lanciata da Cesare Previti nella ruggente stagione del primo berlusconismo; rendere il Csm più «omogeneo» alla maggioranza parlamentare avrebbe significato far dipendere avanzamenti e carriere dalla consonanza con l’esecutivo: una pessima idea. Del resto, l’idea di un contropotere organizzato che non sia solo controllo di legittimità ma trasformazione di ciò che è legittimo, tramite pressione lobbistica sull’organo legislativo, è inaccettabile per qualunque potere politico democraticamente sancito per via elettorale.

Il punto d’equilibrio

Serve un punto di equilibrio. E solo i magistrati possono fermare il moto pendolare tra massima popolarità e massima esecrazione che sembra perseguitarli da decenni, disinnescando gli effetti di un possibile referendum con un vero e saggio atto di autoriforma. La Costituzione tutela ovviamente anche per loro, come per tutti i cittadini, il diritto di associarsi e manifestare liberamente il proprio pensiero. Ma una funzione così alta, di «personale elaborazione sul caso concreto» (citando ancora Livatino), implica libertà da casacche e da fedeltà di cordata.

Dunque, un limite autoimposto al correntismo, se non addirittura uno scioglimento delle correnti, potrebbe essere un passo decisivo per riavvicinare i cittadini alle toghe che tanti meriti hanno avuto nella nostra vicenda repubblicana. Forse è un’utopia e non sarebbe certo un piccolo sacrificio. Eppure, parrebbe un sacrificio possibile, almeno rileggendo le parole di un ragazzo cui non fu concesso di invecchiare, a proposito di equilibrio e responsabilità: «Solo se il giudice realizza in sé stesso queste condizioni, la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha».

Goffredo Buccini
[ CORRIERE DELLA SERA ]