mercoledì, 27 Novembre 2024

Scalpo o voto

Alessandro De Angelis (huffingtonpost.it)

La crisi, nei fatti, è aperta anche se non formalmente. Perché la maggioranza di governo non c’è più. Si è liquefatta nel voto sulla Tav, col presidente del Consiglio assente, due esponenti del governo che, a nome del governo, danno indicazioni di voto diverse sul comportamento da tenere, Cinque Stelle e Lega che si votano contro sulle mozioni. E il capogruppo leghista Massimiliano Romeo che, dopo aver limato il discorso con Salvini, annuncia che “ci saranno conseguenze”.

È chiaro che siamo a un punto di svolta della legislatura, in un clima di suspense e di terrorismo psicologico alimentato dal leader della Lega. Chiuso in un granitico silenzio, Salvini fa crescere l’attesa per il suo comizio serale a Sabaudia, dopo aver annullato, confermato e poi di nuovo annullato più volte tutti gli altri appuntamenti di giornata, come accade nelle giornate campali. È lì che si capirà che tipo di accelerazione vorrà imprimere alla crisi, inedita nei modi e nei tempi, con le Camere chiuse per ferie e i parlamentari in vacanza. Tutto racconta di un’ultima, estrema drammatizzazione, perché è chiaro che così non è disposto ad andare avanti. È un cambiamento complessivo quello che chiede, anzi chiamiamolo col suo nome, l’umiliazione definitiva dell’alleato. O cambiano (guai a chiamarlo rimpasto) uomini, toni complessivi, agenda dando priorità ai cavalli di battaglia leghisti (autonomia, grandi opere, flat tax) o si vota. E la crisi sarà aperta subito. Ed è chiaro che, quando si parla di uomini, la richiesta è lo “scalpo” di Toninelli, il ministro no Tav bocciato dal Parlamento, e la Trenta, l’ostacolo al monopolio salviniano sull’intero comparto sicurezza. Così, oltre alle felpe della Polizia, potrà indossare anche quelle dei carabinieri.

Ecco, o gli alleati, finora solo complici, si trasformano in zerbini, o, se giudicano le richieste inaccettabili, game over. E il capo della Lega chiederà mandato agli italiani per fare, incassato tutto ciò che si poteva incassare in termini di crociata securitaria e tav, tutto ciò “che non ci fanno fare”. È questo che sta accadendo in una giornata surreale, senza nessun incontro di governo convocato, nella assoluta latitanza del premier e nel terrore degli alleati appesi all’editto di Sabaudia. Prima di capire ciò che può accadere, è bene spiegare il perché di questa drammatizzazione il 7 agosto, che ruota attorno a una data: il 9 settembre, giorno in cui alla Camera si voterà – è l’ultimo passaggio – la riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari. Non c’entra nulla la volontà di autoconservazione della cosiddetta Casta che vuole difendersi le poltrone. Il punto è questo.

Sulla carta il combinato disposto di questa riforma e dell’attuale legge elettorale favorisce Salvini perché i collegi più ampi che si determinano producono una torsione maggioritaria, con soglie implicite che favoriscono il partito più grande. Però Salvini ha capito che l’avvio dell’iter della riforma costituzionale (eventuale referendum e ridefinizione dei collegi) di fatto imbullona la legislatura per altri sei mesi. Non solo: ha capito che è, a quel punto, poiché la legge favorisce solo lui si aprirà il dibattito su una nuova legge elettorale. E in Parlamento in un minuto può spuntare una maggioranza per il proporzionale, la legge che in assoluto lo penalizza di più. Insomma, per la crisi siamo al più classico dell’“adesso o mai più”.

E se il 9 settembre spiega il 7 agosto, i giorni che verranno sono invece un’incognita sulle modalità e sui tempi di una eventuale crisi, a Camere chiuse. C’è uno snodo, cruciale, che riguarda il ruolo del capo dello Stato. I ben informati sostengono che, tra i Cinque stelle, circola la data del 13 ottobre, perché evidentemente tutti si aspettano che le richieste di Salvini siano “inaccettabili”. Il che significherebbe, calendario alla mano, che le Camere dovrebbero essere sciolte entro il 20 agosto. Crisi, consultazioni, scioglimento in 13 giorni. Tutto ruota attorno a una questione: se la crisi viene o meno “parlamentarizzata”, se cioè il capo dello Stato riterrà necessario spedire il governo alla Camere per un voto di sfiducia o no.

Al momento sono troppe le incognite, a partire dal “che farà Conte”, ma un fatto va registrato. Se un governo cade in Aula, di prassi, è quello stesso governo che, in carica per il disbrigo degli affari correnti, porta il paese al voto. Cioè si va alle elezioni con Salvini al Viminale e quindi controllore di tutto il sistema di voto. Per andare al voto con un Viminale più “neutro”, a garanzia di tutti, è necessario che ci sia un “governo elettorale”, che traghetti il paese al voto. E che dunque Conte non vada in Aula. Non è un dettaglio in questa precipitazione. Siamo al dunque. Scalpo o voto. Nessun contatto tra gli alleati. A metà pomeriggio Salvini è a casa sua, nell’ora della scelta, senza parlare con nessuno. E l’assemblea dei Cinque stelle slitta alle dieci di sera. Quando sarà chiaro il senso dell’editto di Sabaudia.