Provo a spiegarla così: un prestigiatore vi fa estrarre una carta, e vi chiede di tenerla coperta. Poi, dopo qualche sapiente formula magica, vi chiede di infilarla di nuovo nel mazzo. Ancora formule magiche e un pleonastico rimescolamento di carte, quindi vi chiede di rivelare al pubblico quale carta avevate scelto. Dopodiché, tira fuori dal taschino un foglietto, sopra il quale è indicata precisamente la carta che avete pescato. Come ha fatto? Molto semplicemente, ha nelle sue molte tasche sistemato un biglietto per ogni carta, e tirato fuori quello che serviva alla bisogna.
Cosa c’entra questo trucco elementare con le fake news? C’entra, perché risponde al medesimo principio: per ogni e qualsiasi opinione vi passi per la testa (come per ogni e qualsiasi carta del prestigiatore), c’è modo di trovare in rete, da qualche parte, e anzi di costruire previamente, una conferma. Massiccia, potente, efficace. Così, del resto gli utenti si muovono in rete: cercando conferme. E trovandole: immancabilmente. Tra gli amici collegati online, nelle chat, nei gruppi sui social network. Echi, rimbombi e caverne in cui ci infiliamo volentieri, uscendone sempre più confermati e rafforzati nelle nostre opinioni.
Ora, non c’è indebolimento dello spirito critico più evidente di questo. Basta ricordarsi di Popper, e di quello che diceva sul modo in cui procede invece la scienza: si formula una congettura, dopodiché si va in cerca non della sua conferma ma della sua confutazione, dell’experimentum crucis che proverà a demolirla. Noi invece procediamo tutt’al contrario, attraverso il rimpallo virale di link che trasformano, secondo una vecchia legge dialettica, la quantità in qualità: oltre una certa soglia di visualizzazioni, una notizia diventa di per sé attendibile. E vera, almeno per il tempo necessario a produrre i suoi effetti.
Una cosa del genere è inedita. Non era vera mille, cento, a anche solo trenta anni fa. Certo, già Italo Calvino parlava di «questo mondo fitto di scrittura che ci circonda da ogni parte», ma diciamo la verità: non aveva ancora visto niente. Non aveva visto internet, non aveva visto le campagne di disinformazione che è possibile orchestrare in rete, non aveva visto quanto potenti siano le casse di risonanza che amplificano in rete i messaggi.
Cavarsela quindi dicendo che il potere ha sempre cercato di distorcere la verità, che è sempre esistita una verità ufficiale in realtà intessuta di bugie e falsità, significa mancare il fenomeno nelle sue caratteristiche specifiche, nella sua fenomenologia attuale. Che comprende una profondissima erosione di quegli spazi di mediazione oggi superati e anzi travolti dall’idea che basti una ricerca su google per sapere come stanno le cose: senza che ci si faccia anche solo una domanda su come siano imbastiti i risultati di google. Questa, poi, è una differenza fondamentale rispetto al passato: il modo in cui è costruita l’architettura della rete, gli algoritmi che la governano, i poteri e i danari che le danno forma sono per lo più del tutto sconosciuti ai suoi utenti, mentre «l’interfaccia» user friendly è per ciascuno a portata di clic. L’enciclopedia del sapere dentro la quale ci si formava un tempo, checché se ne dica, non era altrettanto invisibile e impenetrabile.
Dopodiché è certamente vero che non saranno i divieti, le censure e la legge penale a poter arginare il fenomeno. Ma questo rende se mai ancor più necessario prestarvi attenzione. Anzi: proprio la semplice constatazione che per definizione il potere mette in scena una certa rappresentazione di sé, dimostra che lo spazio in cui la rappresentazione va in scena è uno spazio decisivo, attraversato per l’appunto da lotte di potere, e dunque, se reso invisibile, pericoloso per la democrazia. Che ha bisogno, al contrario, di sottoporre a critica e di rendere il più possibile trasparente e contendibile l’esercizio di quel potere.
Per questo, il dibattito sulle fake news non è fuffa, non è un dibattito ozioso, non è una perdita di tempo. La democrazia moderna nasce in uno con la formazione di un’opinione pubblica. Anzi, dal punto di vista storico, la seconda ha preceduto e reso possibile la prima: com’è possibile allora non averne cura? Com’è possibile, quando ormai è la rete a orientare una fetta sempre maggiore di cittadini?
Si tratta forse di logore posizioni illuministiche? Può darsi. Ma non è ancora più illuministico, o semplicemente ingenuo, pensare di poter sempre e comunque confidare sul sano buon senso delle persone, che sarebbero sempre in grado, da sole, in qualunque condizione e contesto, di discernere il vero dal falso? Eppure è da un pezzo che sappiamo che il pensiero non è affatto una proprietà individuale, che noi parliamo, ma siamo anche parlati, e fior di filosofi hanno dimostrato che noi siamo nel pensiero molto più di quanto i pensieri siano nella nostra testa. Se questo vi pare un astruso filosofema, allora mettete la parola «rete» al posto di «pensiero» e vedrete che i conti vi torneranno.
Quanto infine alla verità, dopo un secolo e più di dubbi sul suo valore, qualcuno potrà anche ritenere che bisogna capitolare dinanzi alla potenza del falso, ma in tal caso finirà probabilmente col considerare un inganno e un’impostura la democrazia tutta intera. E in effetti: è vero forse che siamo a un passo, a un passo soltanto, dall’arrenderci.