mercoledì, 27 Novembre 2024

SIRIA: ACCORDO ASSAD-CURDI, ECCO COSA CAMBIA

Eugenio Dacrema | Valeria Talbot [ ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ]

Le Forze Democratiche Siriane (SDF) hanno raggiunto un accordo con il regime di Damasco per far fronte all’offensiva militare turca lanciata lo scorso 9 ottobre. Secondo l’accordo, l’esercito siriano sarà dispiegato nei territori curdi fino ad oggi controllati dalle SDF e lungo il confine con la Turchia. Il regime di Assad vuole preservare l’integrità territoriale e “liberare le zone occupate dall’esercito turco e dai mercenari”, termine con cui identifica i ribelli siriani che combattono al fianco della Turchia contro i curdi del Rojava.

Questo nuovo accordo ridefinisce i fronti di guerra e della partita geopolitica siriana. Gli Stati Uniti hanno di fatto lasciato che i curdi trovassero un nuovo alleato nei loro avversari: Damasco, e quindi Mosca. Dall’altra parte, la Turchia e i ribelli anti-Assad potrebbero andare oltre l’obiettivo di assicurarsi il controllo del confine. Nel mezzo pende l’incognita dello Stato Islamico (IS), sconfitto militarmente sul campo a marzo, ma i cui miliziani sono rimasti in gran parte nelle prigioni dei territori oggi contesi, e da cui potrebbero fuggire.

In che modo l’accordo tra curdi e Assad rimescola le carte del conflitto siriano? Qual è la contropartita politica per i curdi del Rojava? C’è il rischio di un ritorno dello Stato Islamico?

In che modo questo accordo rimescola le carte?

L’accordo raggiunto il 13 ottobre tra curdi e regime di Bashar al-Assad sancisce la fine della separazione politica de-facto dell’est siriano dal resto del paese, oggi per lo più tornato sotto il controllo di Damasco. Soprattutto a partire dal 2015, l’accresciuta presenza americana nella cornice della coalizione internazionale anti-IS e la stretta cooperazione con le Unità di Protezione Popolare curde (YPG) – poi unitesi ad altre fazioni ribelli arabe minori sotto il cappello delle Forze Democratiche Siriane (SDF) – aveva portato a una separazione di fatto dell’est siriano dalle dinamiche politiche dell’ovest. Mentre a est il controllo delle SDF sui territori strappati all’IS è stato pressoché totale fino alla recente operazione turca, a ovest il forum trilaterale di Astana – composto da Russia, Turchia e Iran – ha deciso tutti i principali sviluppi militari e politici determinando la situazione odierna che vede il regime rientrato in possesso della maggior parte dei territori nell’ovest del paese e l’opposizione armata confinata nell’area di Idlib. I principali attori presenti a ovest erano finora stati impossibilitati ad estendere la propria influenza a est soprattutto a causa della presenza statunitense. Il venir meno di quest’ultima ha determinato, da una parte, l’operazione militare della Turchia e, dall’altra, l’entrata del regime e dei suoi alleati Russia e Iran, i quali hanno trovato terreno fertile per stringere un accordo con le SDF, costrette in una posizione di estrema debolezza a causa dell’abbandono statunitense. Le dinamiche politiche e diplomatiche che hanno finora determinato gli sviluppi nell’ovest si estenderanno quindi con ogni probabilità a est, riunendo i destini delle due parti del paese, rimasti separati per oltre sei anni.

Cosa ci guadagnano le milizie curde?

In passato tutti i tentativi di negoziato tra Partito dell’Unione Democratica (PYD) – il braccio politico del YPG – e regime di Assad si erano conclusi con un nulla di fatto a causa del rifiuto di quest’ultimo di concedere qualsivoglia forma di autonomia per la minoranza curda nel nord della Siria. L’accordo raggiunto all’improvviso nella notte tra il 13 e il 14 ha visto il PYD partire da una posizione di profonda debolezza rispetto al passato, quando godeva dell’appoggio statunitense. La necessità di assicurarsi il sostegno del regime e dei suoi alleati per respingere l’avanzata turca ha portato la leadership del PYD ad accettare clausole piuttosto vaghe su una propria futura autonomia.

Come affermato dallo stesso leader delle SDF, Mazloum Abdi, la sua formazione è perfettamente consapevole di non potersi fidare né di Mosca, che ha mediato le negoziazioni per l’accordo, né del regime di Assad. Mentre infatti Mosca, analogamente a quanto fatto oggi dagli Stati Uniti, nel 2018 abbandonò il cantone curdo di Afrin per dare luce verde a un intervento turco nell’area – l’Operazione Ramo d’Ulivo che portò all’occupazione dell’area da parte della Turchia e dei suoi proxy siriani – Damasco ha già tradito più volte gli accordi di riconciliazione raggiunti con milizie locali in altre parti della Siria. In particolare, uno studio sugli esiti di tali accordi nel sud del paese ha rivelato come buona parte dei membri di quei gruppi che avevano stretto patti di riconciliazione col regime in cambio di chiare garanzie sulla propria incolumità e autonomia siano stati perseguitati e incarcerati a distanza di pochi mesi. Se dunque nell’immediato l’accordo con il regime appare come la strada obbligata per le forze curde, sul loro destino pesa grande incertezza.

Turchia in Siria: quale strategia?

La durata della presenza turca nel nord della Siria dipenderà molto dagli accordi che i principali attori sul campo raggiungeranno nei prossimi mesi. Sul tavolo resta la proposta russa di ristabilire il Trattato di Adana – firmato da Siria e Turchia nel 1998 – sulla gestione dei confini tra i due paesi, il quale dava ampie garanzie ad Ankara sulla gestione e la repressione da parte di Damasco della militanza curda legata al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Per gran parte degli anni Novanta, infatti, il regime degli Assad aveva permesso al PKK di operare dal territorio siriano in funzione anti-turca causando forti attriti con Ankara, la quale aveva anche minacciato di attaccare la Siria militarmente.

La necessità di allentare tali tensioni aveva portato alla firma dell’accordo e alla repressione ed espulsione della militanza curda nel nord del paese. Perché tale accordo torni in vigore è però necessario che la Turchia si ritiri da tutti i territori siriani attualmente sotto il suo controllo, anche nell’ovest del paese. Perché questo si realizzi è però necessario affrontare due nodi di difficile risoluzione. Il primo ha a che fare con la tenuta politica del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il cui governo si regge sull’alleanza con il Movimento nazionalista turco (MHP). Per conquistare il voto e l’appoggio dei nazionalisti Erdogan ha fatto ampio uso delle campagne militari condotte in Siria negli ultimi tre anni. Un ritiro sarebbe quindi difficilmente digeribile da questi settori dell’elettorato, su cui poggia Erdogan. Il secondo ha invece a che fare con la questione degli oltre tre milioni e mezzo di profughi siriani presenti oggi in Turchia, a cui si aggiungono i quasi tre milioni di civili e profughi interni presenti nell’area di Idlib.

Gran parte di queste persone difficilmente torneranno sotto il controllo del regime di loro volontà mentre la loro permanenza in Turchia sta creando crescente malcontento verso il governo. Inoltre, il regime di Assad ha più volte segnalato la propria riluttanza a riaccettare gran parte dei profughi che si trovano all’estero e o nelle aree rimaste a lungo sotto controllo dell’opposizione, temendo che una volta tornati possano diventare la base di nuove future rivolte. La necessità di trovare una soluzione sulla collocazione di questo enorme numero di rifugiati (tra i 5 e i 6 milioni) rappresenterà probabilmente il nodo di più ardua risoluzione nei prossimi mesi, e potrebbe portare a un prolungamento della presenza della Turchia in Siria in almeno parte dei territori attualmente sotto il suo controllo.

Quali sono gli obiettivi e gli interessi della Russia?

Il ritiro americano dalla Siria, che si sta concretizzando in queste ore, non rappresenta solo uno spartiacque determinante nel conflitto siriano ma anche, più in generale, nel futuro degli equilibri mediorientali. Per la prima volta gli Stati Uniti rinunciano infatti ad avere qualunque voce in capitolo nella risoluzione di una delle più gravi crisi della regione, una crisi che tra l’altro li ha visti in un ruolo defilato rispetto a quello di altri attori esterni e limitato alla lotta allo Stato islamico.

guadagnarne sono soprattutto Russia e Iran, che in modi e per motivi diversi, hanno finora contrastato il ruolo egemonico statunitense in Medio Oriente. La Russia diventa a pieno titolo una potenza internazionale comprimaria di Washington nella regione e certamente l’attore esterno dominante nel Levante arabo, e soprattutto in Siria. Questo è stato indubbiamente l’interesse primario perseguito da Mosca dall’inizio del suo intervento militare nello scenario siriano nel 2015 e può oggi dirsi pienamente raggiunto.

Per stabilizzare tale ruolo la leadership russa dovrà però mostrarsi in grado di guidare il conflitto siriano verso una soluzione credibile e duratura, riuscendo a trovare un equilibrio stabile tra i maggiori attori coinvolti. Una sfida tutt’altro che scontata. Infatti, nonostante in questi anni la Russia si sia dimostrata l’unica in grado di dialogare con tutti gli attori in campo, la composizione di interessi contrapposti è compito arduo anche per le abilità diplomatiche di Mosca che ha condotto la sua politica mediorientale con un mix di strategia e opportunismo.

Il ritiro americano rafforza l’Iran in Siria?

Indubbiamente il ritiro statunitense dalla Siria rappresenta un importante guadagno strategico per Teheran e, specularmente, un contraccolpo negativo per la proiezione strategica israeliana. Di fatto, con il ritiro delle truppe statunitensi dal nord-est della Siria non restano più barriere per la messa a pieno regime/la realizzazione del corridoio territoriale che dall’Iran potrebbe permettere già nel prossimo futuro la circolazione di uomini a armamenti verso il Libano attraverso Siria e Iraq, e che dovrebbe andare ad alimentare e sostenere i proxy iraniani presenti in questi paesi. In questa prospettiva, la decisione di Washington di lasciare il nord-est della Siria contravviene non solo alla politica di contenimento dell’Iran adottata dall’amministrazione Trump negli ultimi anni e culminata con l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano di luglio 2015, ma anche agli interessi di Israele e Arabia Saudita, suoi principali alleati nella regione.   

Quanto è concreto il rischio di un ritorno di IS in Siria?

L’IS ha cercato di cogliere l’opportunità dell’offensiva militare turca contro le SDF, realizzando e rivendicando attacchi direttamente in aree del nord della Siria controllate dalle forze a maggioranza curda, come la cittadina di Qamishli, in cui negli ultimi anni aveva colpito di rado. Vi è inoltre il rischio che le forze a maggioranza curda non possano più controllare le prigioni e i campi in cui sono rinchiusi rispettivamente i combattenti dell’IS e le donne e i bambini che si erano uniti a suo tempo all’organizzazione jihadista. Tra queste persone vi sono anche centinaia di cittadini europei che i relativi paesi di origine, nonostante le ripetute esortazioni della Casa Bianca, hanno quasi sempre preferito non rimpatriare per ragioni legali, politiche, economiche e, non ultimo, di sicurezza.

Il rischio di un ritorno di IS in Siria potrebbe diventare concreto se dovesse prolungarsi la situazione di stallo politico e militare sul terreno, rendendo impossibili azioni efficaci di controllo del territorio simili a quelle condotte finora dalle forze del YPG curdo. Se, al contrario, i principali protagonisti del conflitto siriano dovessero trovare un accordo sufficientemente stabile nel breve termine diventerebbe più difficile per ciò che resta dell’IS oggi organizzarsi e tentare di sfruttare il vuoto di potere creato da una situazione di tensione e conflitto come accaduto nel 2014.  


SIRIA: ACCORDO ASSAD-CURDI, ECCO COSA CAMBIA

Eugenio Dacrema | Valeria Talbot
[ ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ]