Il tema non è solo politico, né di compromessi più o meno accettabili da entrambe le parti, la questione è filosofica e teologica: chi decide del culto? Nell’orizzonte del sovranismo assolutista, così come espresso in uno dei testi fondativi dello Stato moderno, ossia il Leviatano di Thomas Hobbes, la fede è una questione del tutto privata e quindi, diremmo, assegnata al “foro interno”, mentre il culto, avendo a che fare con la socialità, è sottoposto al sovrano, non importa se democratico o totalitario: è comunque lui che decide della religione, delle sue espressioni e delle sue forme. Finché quanto l’autorità ecclesiastica o comunque religiosa decide e gestisce è in sintonia con la sovranità civile, va tutto bene, nessuno si lamenta e viviamo tutti felici e contenti, quando invece il ministero pastorale delle chiese reclama la propria autonomia in contrasto coi governi cosiddetti civili, allora sorge il conflitto, quale quello cui stiamo assistendo.
Si tratta da un lato di quella che veniva denominata ‘religione civile’, dall’altro della ‘minoranza creativa’, i cui diritti dovrebbero essere riconosciuti e tutelati laicamente, a meno che chi governa la società civile non si arroghi anche potere sulla sfera religiosa e cultuale. Allorché si è posto il problema del culto pubblico nell’emergenza presente e della necessità di limitarne l’esercizio, abbiamo insistito sul fatto che per la comunità credente cattolica non si trattava di eseguire la normativa dello Stato laico, ma di salvaguardare l’umano (la salute) e che tale decisione veniva assunta autonomamente dall’autorità ecclesiastica, che ora è chiamata ad adottare decisioni che insieme custodiscano l’umano e al tempo stesso indichino le modalità di rendere (= restituire) a Dio ciò che gli appartiene, sia nella sfera sociale che in quella domestica.
Tale equilibrio è fondamentale proprio nella prospettiva di quel ‘nuovo umanesimo’ che la Chiesa italiana ha messo a tema nel suo ultimo convegno ecclesiale. Nell’Inghilterra del XVII secolo, le guerre di religione, alimentate da controversie teologiche, erano così violente da far sì che Thomas Hobbes paragonasse le piaghe inferte a quella nazione alle piaghe di Giobbe, invocando e teorizzando la figura del Leviatano, quale icona dello Stato assoluto o, se si vuole, di quello che sarà lo Stato etico di hegeliana memoria, oggi diremmo del ‘sovranismo’.
Della visione hobbesiana Jacques Maritain, nel 1951, smascherava il totalitarismo ( L’uomo e lo Stato), così come Franz Rosenzweig aveva denunciato la deriva totalizzante della concezione hegeliana dello stato, nella sua dissertazione dottorale, edita nel 1920, col titolo Hegel und der Staat (pubblicata in italiano dal compianto Remo Bodei). L’immagine del Leviatano, riprodotta nel frontespizio della prima edizione dell’opera del filosofo inglese (siamo nel 1651) è particolarmente significativa ancora oggi e anche per noi. Speravamo che, nel momento in cui la nostra Costituzione repubblicana ha affermato che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel suo ordine indipendenti e sovrani» (art. 7), il governo di questa nazione non dovesse più impugnare il pastorale, e dato anche che la Repubblica ripudia la guerra (art. 11), nemmeno la spada.
Purtroppo, dobbiamo constatare che la tentazione totalizzante dell’assolutismo riemerge, anche in settori che non riguardano soltanto la religione, ma per esempio l’economia e l’educazione. Il timore che la catastrofe possa generare nuovo potere totalitario non è affatto peregrino né psicotico: nonostante la tentazione della esemplificazione, dobbiamo continuare ad abitare la complessità, di cui il potere è ignaro, onde non cedere al canto delle sirene che promette un benessere non coincidente con lo sviluppo integrale della persona. La felicità non può riguardare soltanto la salute del corpo, ma anche quella dell’anima e dello spirito.
Giuseppe Lorizio Teologo, Pontificia Università Lateranense
[ Avvenire ]