Può piacere o meno un Paese in cui l’assegnazione della presidenza è annunciata da network televisivi. E infatti l’America ha sempre diviso anche per questo. Ma quella grande democrazia è fatta così: il meccanismo elettorale è regolato su base locale e l’ufficialità arriva molto dopo il voto. L’informazione, dunque, ha dovuto fare la sua parte, anche perché gli occhi e le attese di tutto il mondo erano ormai sulla competizione prolungatasi ben oltre l’election day tra Joe Biden e Donald Trump. Ed ecco che, quattro giorni dopo, finalmente sappiamo che nelle urne ha vinto il democratico Biden. Sarà il più anziano eletto alla guida della Casa Bianca, nonché il secondo cattolico dopo John Kennedy. E nella storia porta con sé Kamala Harris, prima donna e prima persona di colore a diventare vicepresidente.
È una svolta politica per gli Stati Uniti e un cambio con riflessi importantissimi per tanti scenari internazionali. Quello che rende teso e accidentato questo passaggio non ancora formalmente concluso è la decisione del leader uscente di non “concedere” la vittoria al rivale. Una scelta traumatica che potrebbe aprire scenari drammatici se non si incanalerà unicamente nel percorso giudiziario dei ricorsi contro la regolarità del voto in alcuni Stati chiave. Non sembra, al momento, che i brogli denunciati con incauta certezza da Trump siano davvero stati commessi e un eventuale riconteggio difficilmente ribalterà la situazione.
In un’elezione straordinariamente partecipata per i canoni Usa, Biden ha conquistato 4 milioni di voti in più dell’avversario e ha ampio vantaggio anche tra i grandi elettori. Soltanto le prossime settimane ci diranno quanto l’ostinazione a non ammettere la sconfitta dell’attuale presidente renderà ulteriormente intossicato il clima negli Stati Uniti e incendierà le piazze, che ieri si sono riempite dei sostenitori democratici in festa. Non tutto il Partito repubblicano è intenzionato ad avvelenare i pozzi della democrazia, con la messa in discussione del processo che ha portato alla scelta del 46° Commander in chief.
In ogni caso, al neoeletto Biden spetta un compito difficile e delicato. Non basta, anche se è già un segnale di forte discontinuità rispetto agli ultimi quattro anni, dire che sarà il «presidente di tutti», deciso a ricucire l’anima lacerata del Paese. La narrativa di un leader è certamente rilevante, eppure la prova dei fatti resta decisiva. Tutti si aspettano qualcosa da Biden, il suo stesso partito è spaccato e il Senato, probabilmente ancora a maggioranza repubblicana, non gli farà sconti. I movimenti, a partire dagli afroamericani di Black Lives Matter, chiedono un sostengo più esplicito.
I moderati che l’hanno scelto pretendono legge e ordine, che non è un’esclusiva dei conservatori. L’establishment economico che alla fine l’ha generosamente sostenuto potrebbe fare discretamente sapere che gli aumenti delle tasse e l’agenda verde con la transizione energetica contenuti nel programma non sono poi così urgenti e utili. L’Europa già immagina una nuova pagina di relazioni privilegiate, mentre la Cina resta un rebus difficile da sciogliere sia dal punto di vista geo-strategico sia da quello economico. Il Covid è ovviamente la prima urgenza ed è difficile pensare che si possa fare peggio dell’attuale Amministrazione.
Bisogna però calarsi nella mentalità americana: in media le contee con più vittime per la pandemia, secondo i primi dati, hanno preferito Trump a Biden. A significare che la spaccatura del Paese non sarà sanata facilmente. I 70 milioni di voti per il tycoon ora battuto sono il frutto di una mobilitazione che ha portato ai seggi sia chi voleva dire basta al populismo spericolato sia chi pensava di dover sbarrare la strada a un “socialista” o a un cristiano praticante che però è “pro-choice”, ovvero personalmente contrario all’aborto ma a favore della libera e non sanzionata scelta delle donne.
Avrà Biden tutte le virtù che gli sono state proiettate addosso in opposizione al rude predecessore? Lo scopriremo presto. Certo, l’impresa più grande cui viene chiamato è rimettere la buona politica al centro, quella che si basa sui fatti reali e non “alternativi”, sulla onesta verità e non sulla “post-verità”, sull’inclusione e non sul settarismo, sull’attenzione a tutti i portatori di legittimi interessi e non solo al proprio gruppo di riferimento. Un’impresa complicata se i media che oggi parlano di una sua «vittoria morale» sono quelli che hanno interrotto la diretta del discorso del presidente che denunciava frodi senza averne prove. Una scelta motivata ma discutibile, che avrà rafforzato l’ostilità di tanti a quel mondo cui Biden si è appoggiato.
Se «Sleepy Joe» saprà essere anche lo zio d’America, di umili origini e solida fede di fronte ai lutti e ai dolori che ha saputo affrontare, moderato e non estremista, potrà forse diventare davvero il leader di tutti. A beneficio del suo Paese, e anche del mondo.
Andrea Lavazza
[ Avvenire ]