Di certo, è stato il suo discorso più impegnativo. Perché rivolto al mondo. Perché doveva spiegare una scelta che può ipotecare il futuro del Medio Oriente e riscrivere una storia millenaria. Donald Trump e Gerusalemme. Ad ascoltare il suo discorso sono i leader di tutto il mondo. Gli alberi di Natale che addobbano la sala della Casa Bianca scelta da The Donald per il “discorso del secolo” riportano alle festività ormai prossime, ma in Terrasanta mai come in questo momento la natività è lontana, come la speranza. Nei giorni, nelle ore precedenti, Trump e il segretario di Stato Rex Tillerson avevano registrato le prese di posizioni di tutti i leader mondiali: tutte, o quasi, preoccupate, contrarie a ciò che Trump stava per annunciare.
Ma The Donald tira diritto. Perché lui, dice, è uno che mantiene le promesse fatte. E una di queste era riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato d’Israele. Ed è da qui che inizia il suo discorso. Nessuna retromarcia. “È ora di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, è l’inizio di un nuovo approccio al conflitto israelo-palestinese.
Israele ha il diritto a scegliere la propria capitale”. Il nuovo approccio significa molto più che una discontinuità con il suo predecessore: quella di Trump è una svolta storica che cancella tutto ciò che era stato detto e fatto dai suoi predecessori alla Casa Bianca, Repubblicani o Democratici. Neanche l’accorato appello di Papa Bergoglio ha smosso Trump dalle sue certezze. Prima che un investimento sul futuro, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, è per lui un risarcimento storico. “È ora”, dice.
Ma a Trump non sfugge che questa decisione, con il trasferimento in tempi non definiti e comunque non brevi dell’Ambasciata Usa da Tel Aviv alla “capitale d’Israele”, è destinata a scatenare la rabbia non solo dei Palestinesi ma dell’interno mondo arabo e musulmano, compresi gli storici alleati dell’America, come l’Egitto, la Giordania, la stessa Arabia Saudita. Ecco allora il presidente aggiungere: “Vogliamo un accordo di pace che sia un grande accordo per gli israeliani e i palestinesi”.
E accompagna questa petizione di principio appellandosi alla “calma” e alla “tolleranza”. Un grande accordo ma senza Gerusalemme. “Gerusalemme non è solo il cuore di tre religioni, ma di una delle democrazie più importanti al mondo. Gli israeliani hanno costruito un paese dove tutti sono liberi di professare la loro religione. Gerusalemme è e deve restare un posto dove tutti possono pregare”, ha spiegato Trump. “Oggi riconosciamo l’ovvio: Gerusalemme è la capitale d’Israele. È Il riconoscimento della realtà, niente di più”. Ecco, è qui il cuore del discorso di Donald Trump.
È in una semplificazione che non regge il peso di una Storia che racconta altro da quello che il capo della Casa Bianca sostiene. Perché ogni pietra di Gerusalemme narra una storia di conflitti, di guerre combattute in suo nome. Certo, Trump evoca ancora la possibilità di una soluzione “a due Stati”, i suoi collaboratori fanno sapere che una “capitale” ci sarebbe: è Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme. Chi vuole dar prova di ottimismo, legge quel “riconoscimento di una realtà” come un messaggio che Trump lancia al suo alleato e amico personale Benjamin Netanyahu, premier d’Israele: io mi sono esposto, ora tocca a te fare concessioni. Ma è un azzardo che sembra avere poche chance di successo. Perché Gerusalemme era una ferita aperta, e lo è ancor più oggi.
Perché la scelta di Trump sarà una straordinaria arma di propaganda per tutti i gruppi estremisti dentro e fuori il Medio Oriente. Hamas ha già iniziato: “Trump ha aperto le porte dell’inferno per gli interessi americani”, Ora le porte dell’inferno si apriranno per l’America”, tuonano da Gaza, negli stessi minuti in cui , da Gerusalemme, Netanyahu saluta un “Giorno storico” dopo l’annuncio di Trump. La dichiarazione di Trump “distrugge” la soluzione a due Stati, ribadisce l’Olp. Il presidente americano fa conto sul nuovo corso saudita, più interessato a contenere l’espansionismo “persiano” in Medio Oriente (Siria) e nel Golfo (Yemen) che a sostenere al causa palestinese. Ma qui c’è l’azzardo. Perché neanche il giovane e ambizioso principe ereditario saudita, Mohammad bin-Salman, può chiudere gli occhi di fronte a ciò che Gerusalemme rappresenta per l’intero mondo musulmano: il terzo luogo sacro dell’Islam. Farsi sfilare la bandiera della difesa della santa “Al Quds” sarebbe un suicidio politico per il futuro re saudita.
Perché di questo si tratta: divisi su tutto, le potenze regionali, sunnite e sciite, si ritrovano unite, e insieme in competizione, nell’evocare una nuova Intifada: l'”Intifada Al Quds”. Ecco allora levarsi i proclami da Teheran e Ankara. “Segno di incompetenza e fallimento. La Palestina sarà libera e i palestinesi vinceranno”, sentenzia la Guida spirituale della Repubblica islamica dell’Iran, l’ayatollah Al Khamenei.
Stavolta, non è meno duro il tono utilizzato dal presidente iraniano, il “riformatore” Rohani: “Non tollereremo una violazione dei luoghi santi musulmani”. Mentre su Twitter il vicepremier turco Bekir Bozdag scrive: “Questa scelta potrebbe far precipitare la regione in uno scontro senza fine”. La scelta di Trump è anche un colpo mortale alla credibilità delle Nazioni Unite e segna una rottura pesantissima con l’Europa, completamente ignorata in questo cruciale frangente.
“Deplorevole”: così il presidente francese, Emmanuel Macron, commenta a caldo, pubblicamente, la decisione ufficializzata da Trump su Gerusalemme. “Dio benedica gli israeliani, Dio benedica i palestinesi”, dice Trump chiudendo il breve discorso, durato circa cinque minuti. Cinque minuti che trasformano il corso della storia di una delle più tormentate e nevralgiche aree del mondo. Avverte Aaron David Miller, già negoziatore per il Medio Oriente per diversi presidenti Usa, Repubblicani e Democratici: “Gerusalemme è una polveriera, in attesa dello scontro finale”.
Determinante a questo punto sarà il ruolo che Washington riuscirà a giocare a valle della storica decisione. L’Onu, in questo senso, ha sottolineato che il problema dello status di Gerusalemme deve essere risolto e definito al termine di negoziati di pace tra israeliani e palestinesi, non prima unilateralmente da una terza parte. Abu Mazen è perentorio: “La decisione odierna di Trump equivale ad una rinuncia da parte degli Stati del ruolo di mediatori di pace”.