giovedì, 28 Novembre 2024

Strage di Capaci, tutto quello che c’è da sapere: quando la mafia uccise Falcone

Giovanni Bianconi [ CORRIERE DELLA SERA ]

Dopo trent’anni, la ricorrenza della strage di Capaci non è solo un anniversario più solenne degli altri che si susseguono, quasi stancamente, ogni dodici mesi. È un’occasione per riflettere con maggiore attenzione su quanto accadde il 23 maggio 1992 all’altezza dello svincolo autostradale di Capaci, e cercare qualche risposta in più.

Sulle responsabilità della mafia in quel terribile attentato, che ha inciso così profondamente sulla storia dell’Italia repubblicana; e sulle responsabilità dello Stato – la politica, la magistratura – sul clima e i comportamenti che hanno preceduto e seguito l’eccidio in cui sono morti Giovanni Falconesua moglie Francesca Morvillo e i tre poliziotti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. L’attribuzione dell’omicidio è chiara: fu la mafia a far esplodere la bomba. Come furono i neofascisti a compiere gli attentati che hanno insanguinato l’Italia tra il 1969 e il 1974, da piazza Fontana a piazza della Loggia, e furono le Brigate rosse a sequestrare e uccidere Aldo Moro.

Restano però da chiarire molti aspetti collaterali di ciò che ruotò intorno a quelle responsabilità, che cosa rese possibile quei delitti, quali connivenze e complicità si attivarono prima e quali coperture scattarono dopo. Per la strage di Capaci e ancor più per quella di via D’Amelio, che 57 giorni dopo cancellò dalla faccia della terra Paolo Borsellino insieme a cinque agenti di scorta, esattamente come per le trame nere e l’assassinio di Moro.

L’ultima sentenza

Dopo trent’anni, rispetto agli anniversari precedenti, abbiamo ad esempio una sentenza in più sull’organizzazione e l’esecuzione della strage. Lo scorso agosto sono state depositate le motivazioni con cui la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta ha condannato all’ergastolo altri quattro mafiosi nel processo «Capaci bis». Quel verdetto conferma la ricostruzione del pentito Gaspare Spatuzza che dal 2008 ha aggiunto la sua versione a quella di altri quattro esecutori della strage; e ha fornito ulteriori tasselli a un mosaico già delineato. I giudici hanno ribadito una volta di più quello che proprio Borsellino aveva detto pubblicamente la sera del 25 giugno ’92: «Non voglio esprimere opinione circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque».

Vendetta e prevenzione

È una verità acclarata che può sembrare scontata e banale, ma non lo è. Dire che non è solo mafia non significa che la mafia non c’entra, o che sarebbe stata poco più di una copertura. Non è così: il nemico numero uno di Cosa nostra è stato trucidato da Cosa nostra, e in particolare dalla fazione corleonese guidata da Totò Riina che da tempo aveva preso il controllo dell’organizzazione. E che uccidendo Giovanni Falcone ha compiuto un’azione punitiva e preventiva, pianificata alla fine del 1991, vigilia della decisione della Cassazione sul maxi-processo che sancì la struttura unitaria e verticistica di Cosa nostra, distribuendo una pioggia di ergastoli. Al «capo dei capi» erano giunte voci che così sarebbe andata e così andò. 

La sentenza del 30 gennaio 1992 diede il via alla reazione. Punitiva perché il giudice che aveva istruito il maxi-processo a Palermo, e che a Roma s’era adoperato affinché non s’inabissasse nelle sabbie mobili della Cassazione, doveva pagare il conto. Preventiva perché quello stesso giudice continuava a «fare danni», e dal ministero della Giustizia stava ideando nuove norme e strutture per un più efficace contrasto alle cosche. A cominciare da quella Superprocura antimafia che s’era messo in testa di andare a dirigere. Meglio toglierlo di mezzo, quindi. Tuttavia le modalità (una strage di tipo terroristico) e i e i tempi (nel pieno di una stagione che annunciava il tramonto della cosiddetta Prima Repubblica) dell’esecuzione lasciano spazio ad altri moventi e interessi, sia interni che esterni all’organizzazione mafiosa.

Movente politico

«Non pare in dubbio – hanno scritto i giudici della Corte d’Assise d’Appello – che dietro la strage di Capaci sia configurabile anche un movente politico, identificabile nella ricerca da parte di Cosa nostra di nuovi referenti politici, oltre che una contestuale finalità di destabilizzazione intesa a esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa che aveva fino a quel momento attuato una drastica politica di contrasto all’espansione del crimine organizzato mafioso». Di conseguenza, «è possibile che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi nella riunione degli auguri di fine anno 1991, abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». Le famose «tastatine di polso» – di cui hanno parlato molti pentiti – effettuate da Riina nel mondo politico, dell’imprenditoria e della finanza, anche per via mediata, prima di deliberare la strage. Per valutare le reazioni di chi pure poteva trarre beneficio dall’eliminazione del giudice che già aveva avvertito tutti delle sue intuizioni e convinzioni: «La mafia è entrata in Borsa».

Convergenze d’interessi

Niente che possa «mettere in ombra la paternità della terribile decisione di morte» assunta e portata a termine dalla mafia, ma abbastanza per immaginare ulteriori connivenze e correità (non necessariamente penali). Come per le stragi nere che hanno fatto comodo a chi, in Italia e all’estero, nei primi anni Settata sollecitava il disordine per mantenere o ristabilire l’ordine; e come per Moro, pochi anni più tardi, quando dopo il rapimento ci fu chi cominciò a muoversi per evitare che l’ostaggio delle Br tornasse a casa vivo. Sono le «convergenze di interessi» di cui parlava proprio Falcone a proposito dei «delitti politici» commessi dalla mafia, da Michele Reina a Cal Alberto dalla Chiesa passando per Piersanti Mattarella e Pio La Torre, che probabilmente si sono riproposte per lui e per il suo amico Paolo Borsellino.

In Sicilia, scrisse Falcone nelle ultime righe di Cose di Cosa Nostra, «si muore generalmente perché si è soli, o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno». È successo il 23 maggio a Capaci, ma poteva succedere tre anni prima, nel 1989, all’Addaura. In quel caso l’attentato fallì, tuttavia le calunnie delle lettere anonime del Corvo avevano già messo il bersaglio in un angolo, quasi messo all’indice all’interno delle istituzioni, da una parte della politica e di quella magistratura di cui fu un rappresentante molto più sopportato che supportato.

«Era il momento giusto»

Dopo il colpo andato a vuoto all’Addaura Riina si lamentò del tentato omicidio perché, disse, «era il momento giusto». Ma era il momento giusto anche nel 1992, quando il giudice antimafia più famoso al mondo in Italia era osteggiato, vilipeso e malvisto; pure da chi in passato lo aveva sostenuto, o aveva approfittato delle sue indagini sui rapporti tra mafia e politica per guadagnare spazi e visibilità. Non ebbero remore ad accusarlo di essersi troppo avvicinato alla politica con il suo incarico ministeriale (accettato solo perché alla Procura di Palermo gli veniva impedito di lavorare come avrebbe voluto), di aver abbandonato l’avamposto della lotta alla mafia e di essere un magistrato corroso dalla brama di protagonismo e di potere. 

Giovanni Falcone aveva fatto le sue scelte, che potevano essere certamente discutibili purché discusse «in buona fede», come spiegò Paolo Borsellino dopo la sua morte. Ma una cosa era certa allora e lo oggi ancor di più oggi: al ministero della Giustizia, aggiunse il giudice suo amico che con lui istruì il maxi-processo, Falcone andò e «lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura». Lo stesso destino imposto a Borsellino, neanche due mesi dopo, in attentato ben più denso di misteri, depistaggi e complicità occulte. Non ancora svelate. È bene tenerlo a mente, trent’anni dopo.

 Giovanni Bianconi

[ CORRIERE DELLA SERA ]