C’è una chiara divaricazione fra il dibattito di politici, economisti e banchieri sull’uso del contante, che oscilla fra pulsioni fiscali (tassazione) e di divieti (soglia uso), e la pratica quotidiana di decine di milioni di persone che si ostinano a girare con le banconote in tasca. Ancora una volta, élite e ceti popolari sembrano assai distanti. Specie nel nostro paese.
Italia regina del contante
L’Italia, secondo una ricognizione proposta lo scorso febbraio dalla Banca d’Italia, è il paese dell’euro in cui è stato rilevato il maggior numero di transazioni giornaliere in contanti (1,7 su 2 transazioni in media). Il 45% delle persone intervistate detto di usare altri mezzi di pagamento, ma comunque la percentuale di quelli che preferisce il contante è un solido 39%, malgrado l’88,9% abbia una carta di credito o di debito.
L’atto di accusa di Rogoff al cash
Le distorsioni generate dal contante vengono ampiamente esaminate in un libro di Kenneth Rogoff (“La fine dei soldi. Una proposta per limitare i danni del denaro contante”, Il Saggiatore, 2017), dove si osservava che, fra le altre cose, «l’eccesso di contante contribuisce in modo decisivo a rendere il mondo più povero, più iniquo e meno sicuro, pone grandi limiti alle politiche monetarie, favorisce l’evasione fiscale e il lavoro nero e rappresenta di fatto un regalo alla criminalità organizzata e al terrorismo». Un atto d’accusa a tutto tondo, arrivato da uno studioso che è stato capo economista del Fmi, e quindi di sicuro molto ascoltato. Si potrebbe argomentare su ognuno dei punti sottolineati da Rogoff, ma vale la pena soffermarsi giusto su uno che sembra meno intuitivo: i limiti che il contante pone alla politica monetaria.
L’idea di una moneta digitale
A inizio anno il Fmi ha pubblicato uno studio molto interessante che ipotizzava di dividere in unità – distinte ma facenti riferimento allo stesso conio – la valuta di un paese per arrivare gradatamente proprio all’eliminazione del contante, che limita la capacità della banca centrale, specie quando è eccessivo, di far scendere i tassi di interesse al livello che si potrebbe rendere necessario in caso di una nuova recessione. E siccome il contante può essere custodito senza troppi costi – costringendo un’economia nella keynesiana trappola della liquidità – ecco l’idea: una valuta digitale di banca centrale che denomini i prezzi e che sia vincolata con un rapporto di cambio con quella “analogica”. Mutando il rapporto di conversione in senso svantaggioso al contante, si riuscirebbe a stimolarne l’utilizzo e quindi la spesa. «Questo doppio sistema di valuta locale consentirebbe alla banca centrale di applicare un tasso di interesse negativo (se ne parla parecchio tra banchieri, ultimamente, ndr), necessario per contrastare una recessione, senza innescare sostituzioni su larga scala in contanti».
Dal Bitcoin a Libra
Suggestioni, senza dubbio, ma comunque indicative di un clima che sta maturando lentamente nei piani alti del sistema. E qui veniamo a un altro punto interessante da sottolineare: l’avvento delle valute digitali. La moneta digitale è chiaramente altro dalla moneta elettronica. Quest’ultima è una replica su supporto (carta di credito, debito, token elettronico, eccetera) del denaro di cui già si dispone dentro un conto corrente. La prima è un’altra moneta, emessa da un privato e non dal potere pubblico. La seconda ha una storia ormai molto lunga, intrinsecamente legata a quella del sistema monetario, che si compone di sistema dei pagamenti e moneta, dove operano la banca centrale e le banche commerciali. Per farla semplice, potremmo disegnare un lunga retta che inizia con l’invenzione del Bitcoin di Satoshi Nakamoto, che risale al 2008, e finisce con l’annuncio della Libra di Facebook di quest’estate. In mezzo c’è tutto un fiorire di strumenti digitali che hanno in comune una sistema di pagamento, in larga parte articolato lungo una blockchain, che funziona all’esterno del sistema bancario, proponendosi – di fatto – di sostituirlo.
Monete senza una nazione
Suggestione anche questa, ovviamente. Però da osservare, come ad esempio ha fatto un paper diffuso di recente dal Nber (“The digitalization of money”) che si collega alle intuizioni di Friedrich Von Hayek degli anni ’70 (“Denationalisation of money”). Internet ha reso concreta l’ipotesi di una moneta emessa dai privati quale valida alternativa alla moneta pubblica. «L’importanza della connessione digitale porterà alla creazione di “Aree valutarie digitali” (DCA) che collegano la valuta alla gestione di una determinata rete digitale piuttosto che a un paese specifico». Queste monete “denazionalizzate”, per dirla alla Von Hayek, sono capaci di rivoluzione il sistema monetario internazionale. Questa non è più una suggestione, è una preoccupazione concreta.
Sfida alla sovranità monetaria
Ne è prova il recente paper diffuso dal gruppo di lavoro del G7 dedicato alle stablecoin globali, ossia valute digitali agganciate a un asset – il paniere di valute della Libra di Facebook ad esempio – capaci di travalicare non solo i confini geografici, ma di surclassare le valute tradizionali. Le global stablecoin, scrivono, «hanno implicazioni per il sistema monetario internazionale, compresa la sostituzione della valuta, e potrebbero quindi rappresentare una sfida per la sovranità monetaria». Soprattutto se sono espressione di quei giganti di internet che per clientela e potenza di fuoco finanziaria sono davvero capaci di fare “concorrenza” alle monete pubbliche.
Da qui la preoccupata attenzione con la quale banchieri, centrali e non, regolatori, economisti e politici, stanno monitorando l’avventura non solo di Libra, ma di tutto l’ecosistema delle valute digitali, provando a prendere gli aspetti utili e inglobandoli all’interno del sistema tradizionale. In questa chiave si può interpretare l’avvento delle valute digitali di banca centrale, della quali si parla molto in Svezia – dove c’è un uso molto basso del contante – e in Cina, dove potrebbe essere emesso uno yuan digitale costruendo una innovazione potenzialmente dirompente per il sistema dei pagamenti cinesi e la diffusione internazionale della valuta cinese.
Divaricazione tra cittadini ed élite
E arriviamo così alla conclusione. Da una parte abbiamo una pletora di utilizzatori di denaro contante che, per abitudine, insicurezza, disinteresse, finalità illecite e altre ragioni, continua a esprimere una notevole richiesta di cartamoneta. Dall’altra una minoranza, che però vive ai piani alti del sistema, che sta decidendo che nell’era digitale un “barbarous relic”, come ebbe a dire Keynes dell’oro, come il contante “analogico” debba finire fuori corso per ragioni che sono di ordine economico (fiscale) e di sicurezza (criminalità/terrorismo).
I protagonisti di questa decisione sono i governi – non a caso della tematica si è occupato il G7 – le banche (centrali e non), le autorità di regolazione, e buona parte dell’accademia, da un parte. Dall’altra i giganti di internet. In alcuni casi sono in perfetta sintonia con il governo – si pensi agli unicorni cinesi – mentre in altri casi stanno cercando un equilibrio. Questi figli di internet vogliono sostanzialmente una fetta della torta degli enormi profitti che generano la gestione del sistema dei pagamenti e della moneta. Che sarebbe una richiesta comprensibile se non fosse che un sistema monetario, perché di questo stiamo parlando, è il frutto di un ordine politico, che non si contratta certo a tavolino.
Probabilmente tutte queste entità troveranno il modo di convivere, in un modo o nell’altro. Far sparire il contante potrebbe essere di sicuro un buon modo per cominciare a intendersi. La gente si adeguerà. Nella storia i cambiamenti avvengono quasi sempre così.
il Sole 24 ORE : Pubblichiamo un intervento sul tema del contante di Maurizio Sgroi, giornalista socio-economico e blogger (il suo blog si chiama The Walking Debt) che collabora per Econopoly, il blog del Sole 24 Ore sul quale si dibatte di temi economici e finanziari.
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STRETTA AL CONTANTE: LA DISTANZA SIDERALE TRA ÉLITE E POPOLO
Maurizio Sgroi
[ il Sole 24 ORE ]