Tra poche ore sapremo come finirà la vicenda dell’Ilva. C’è da aspettarsi di tutto e di più: ieri è venuto a mancare il carbon coke che avrebbe creato un disastro agli altiforni 1 e 2 e con quel poco che c’è, stanno, al minimo, funzionando. Nel frattempo, una nave carica di combustibile è partita da Genova per Taranto, per salvare il salvabile. Ironia della sorte, la famiglia Mittal lascia l’Italia e sceglie la Francia.
Il governo Macron e Arcelor Mittal investiranno 1,8 miliardi di euro sulla tradizionale area siderurgica di Dunkerque, per diminuire il carbonio prodotto, eliminando il 6% delle emissioni industriali della Francia. Se dobbiamo dirla tutta, i Mittal hanno fatto un gioco sporco. Non ci vuole Sherlock Holmes, per scoprire il loro atteggiamento, basta mettere i pezzi agganciandoli tra loro per comporre il puzzle.
Il ministro francese allo Sviluppo economico, Bruno La Maire, ha siglato l’accordo con l’ad di Mittal in Francia, Matthieu Jehl, vecchia conoscenza tarantina. Fu amministratore delegato di AMittal, a Taranto, prima di Lucia Morselli. Vista la malaparata, nel momento in cui, saltò lo scudo penale, per opera dell’allora ministro del Mise, Luigi Di Maio, i Mittal capirono la piega che stava prendendo l’accordo con il governo italiano e misero come ad Lucia Morselli, più funzionale al contesto, rispetto a Jehl, più industrialista. Fu un segnale che allora non fu capito. Iniziò così il deconsolidamento del più grande impianto a ciclo integrale d’Europa
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Dopo il fallimento del negoziato, AM e Invitalia si ritrovano al bivio: o divorzio consensuale o scontro all’ultima carta bollata. Lo Stato deve immettere liquidità finanziaria, tanta ma tanta ancora, e costruire di sana pianta una cordata di industriali siderurgici che lo sostituisca nella governance di Acciaierie d’Italia. Innanzitutto, recuperare manager e tecnici di valore espulsi dai vertici di Mittal. Spetterà, infine, al pubblico il nome dell’amministrazione delegato che sostituirà quella attuale espressione del privato. Siamo nel campo delle ipotesi, sinora non c’è nulla di certo ma le polemiche non mancano e sono pane di tutti giorni. Carlo Calenda e M5S, per conto di Conte, si sfidano sulla questione ex Ilva. Perché? Ricapitoliamo.
Da una parte, Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico, che mise a bando la gara per l’acquisizione del complesso aziendale ex Ilva, dall’altra, Giuseppe Conte, presidente del Consiglio che trattò direttamente con la famiglia Mittal, andando oltre il contratto Calenda e Mittal, arrivando ai famigerati patti parasociali e, per di più, fece uscire dal taschino non la pochette, bensì, la proposta di fare entrare nell’azionariato il pubblico: Invitalia guidata da Domenico Arcuri. L’industriale indiano ora chiede una «buona uscita», che gli avvocati delle parti stanno trattando, speriamo in modo indolore, dalle Acciaierie d’Italia, dopo che questa ha rotto il negoziato con la delegazione ministeriale, per non aver accettato la ricapitalizzazione.
Comunque sia, siamo al più curioso caso industrial finanziario, in particolare, la parte del contratto che garantiva 1,8 miliardi di euro all’amministrazione straordinaria per pagare i debiti allo Stato e ai fornitori e 2,4 miliardi di investimento ambientali e industriali. Con la conservazione, in toto, dei livelli occupazionali.
Una polemica a monte tra l’ex ministro Mise e il M5S, mentre a valle il governo Meloni si trova tra le mani la matassa ex Ilva che deve, suo malgrado, dipanarla. Il corto circuito si è avuto sullo scudo penale del quale i 5s hanno fatto uso e consumo, come solo dio lo sa. Ne hanno fatto una bandiera di combattimento a seconda i contesti. De Maio per sancire la pax con Mittal ammainò la bandiera dello scudo penale, poi, la issò dopo il flop alle elezioni, europee, per via dell’emendamento presentato dalla senatrice, Barbara Lezzi, non più ministro, e votato da una ampia maggioranza: dal M5s al Partito democratico, passando per Italia viva. Per quanto riguarda le cordate concorrenti, per l’aggiudicazione dell’Ilva, queste facevano capo a due imprenditori siderurgici indiani Mittal e Jindal. Il primo fece l’offerta migliore di 1,8 miliardi di euro.
Dire che Jindal avesse chance non sta né in cielo né in terra, offri 1,2 miliardi. La prova provata sta nel fatto che non è tutto oro quello che luccica di cui parlano e vantano i 5s. Dopo quattro anni, il magnate indiano è andato via dalle acciaierie di Piombino, senza aver realizzato un tubo nel vero senso della parola. A questo punto, un passo indietro , senza il quale resta tutto nell’ambiguità. Partiamo dal 2017, quando la cordata di Jindal, Arvedi, Cdp e Del Vecchio presentò una offerta per le acciaierie tarantine in concorrenza con quella guidata da Mittal. Come detto, anche il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, è convinto come noi che AMittal vinse, perché si privilegiò l’offerta anziché il piano industriale. Ciò, fu, diciamo, una svista, per non dire che fu un errore grande quanto una casa.
In conclusione, l’ex Ilva è l’autobiografia dell’Italia di oggi che ha svenduto i «gioielli di famiglia».
BIAGIO MARZO
[ LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO ]