domenica, 24 Novembre 2024

TRA USA E RUSSIA NON CHIAMIAMOLA «NUOVA GUERRA FREDDA»

PAOLO VALENTINO (CORRIERE DELLA SERA)

Quella mattina al Dipartimento di Stato, Richard Burt era nervoso. L’ambasciatore sovietico, Anatoly Dobrynin, aveva chiesto di vederlo. Ma il sottosegretario agli Affari Europei non aveva idea di cosa volesse comunicargli. Era il 1983, l’Amministrazione Reagan si era insediata da poco più di due anni e la tensione con Mosca era al massimo; forse solo durante la crisi dei missili cubani il livello era stato più alto. Così Burt rimase basito quando scoprì che Dobrynin aveva chiesto il colloquio per un affare personale. I diplomatici sovietici a Washington non potevano allontanarsi fuori dalla città oltre un raggio di 60 chilometri, misura restrittiva che reciprocava l’analogo divieto imposto a quelli americani a Mosca. Era l’inizio dell’estate e l’ambasciatore stava per ricevere la visita della sua unica nipotina, la luce dei suoi occhi, che veniva per la prima volta in America con un solo desiderio: visitare Disneyland. Dobrynin era venuto a chiedere in gran segreto un permesso speciale per portare la bimba in Florida. Burt ne fu sollevato e preoccupato allo stesso tempo. Disse che ne doveva parlare al segretario di Stato, il falco Alexander Haig, un ex generale che appena sentiva la parola sovietici aggiungeva subito l’aggettivo «bastards».

Il tempo delle ideologie

Haig fece il furbo: «Non voglio saperne nulla. Ti devi prendere tu la responsabilità, se succede qualcosa è stata un’iniziativa tua». Burt si fece coraggio. In fondo il decano dei diplomatici gli era simpatico e la richiesta era del tutto innocente. Accordò il permesso e l’ambasciatore portò la nipotina a Disneyland. L’unica conseguenza fu che per tutti gli anni in cui Dobrynin rimase a Washington, Richard Burt si vide periodicamente recapitare a casa un’enorme scatola di caviale beluga, a perenne gratitudine. L’episodio non è mai stato raccontato. Ma è un perfetto apologo della Guerra fredda, quando la competizione tra due Superpotenze, che cercavano di plasmare il mondo in nome di ideologie opposte e inconciliabili, non fu mai al buio, ma tenne sempre aperti canali di dialogo e meccanismi efficaci di comunicazione su tutto, missili atomici, manovre militari, spie o affari privati.

Le differenze con la Guerra fredda

Oggi il conflitto ideologico è sparito, sia pure non con la fine della Storia preconizzata con troppa fretta da Francis Fukuyama. La Russia non è più una Superpotenza. Eppure è di moda parlare di nuova Guerra fredda tra Mosca e Washington, ignorando premesse, contenuti e rituali di un’epoca dove la rivalità bipolare informava tutto: l’equilibrio del terrore nucleare, la pace armata in Europa, le guerre regionali in ogni angolo del pianeta, il soft power (Disneyland, appunto) e ovviamente il mondo delle ombre dove operavano le spie. Certo gli agenti segreti non hanno mai smesso di operare. E non hanno mai smesso di uccidere: «Queste tattiche hanno una storia molto più antica della Guerra fredda e l’idea che siamo di fronte a una sua riedizione è sbagliata», dice Malcom Craig, che insegna Storia americana contemporanea alla John Moores University di Liverpool.

Spie ed espulsioni

C’è una differenza importante rispetto ad allora quando parliamo di spie, misure speciali e di espulsioni. La lotta fra le intelligence era quasi un male necessario e veniva combattuta senza esclusione di colpi, ma non diventò mai un fattore nell’equazione dei rapporti ufficiali fra le due Superpotenze, anzi le crisi spionistiche venivano spesso usate per rilanciare il dialogo. Come accadde nell’autunno del 1986, quando dall’arresto del corrispondente da Mosca di Newsweek, Nick Daniloff, in risposta a quello a New York di Gennady Zakharov, un agente del Kgb in forza alla missione diplomatica sovietica all’Onu, e dal loro successivo scambio, nacque il vertice di Reykjavik tra Reagan e Gorbaciov, dove per poco non venne deciso un massiccio disarmo nucleare.

Il silenzio della Guerra fredda

Nulla veniva gridato nella Guerra fredda, non c’è memoria di un segretario di Stato americano, tantomeno un ministro degli Esteri di Sua Maestà, che accusasse pubblicamente il Cremlino di aver fatto uccidere una spia, o viceversa. In un certo senso valeva la massima: chi è innocente scagli la prima pietra. Il conflitto era di fondo, le accuse generali: «Impero del Male», diceva Ronald Reagan parlando dell’Urss. C’era perfino una dimensione romantica, come i famigerati agenti «Romeo», veri sciupafemmine del socialismo reale, che la Stasi di Markus Wolf piazzava a Bonn per far innamorare le segretarie zitelle del Bundestag e carpire loro segreti.

Una cosa seria

Ma soprattutto, ecco forse la differenza decisiva, gli americani e gli alleati occidentali disponevano di un compact di riflessioni strategiche con cui cercare di influenzare il comportamento di Mosca. Oggi, spiega Michael Kofman, esperto del Kennan Institute al Woodrow Wilson Center di Washington, «non c’è alcuna teoria su come porsi nei confronti della Russia». E aggiunge: «Gli strumenti diplomatici che usiamo servono piuttosto a rassicurare gli alleati o a creare una parvenza di unità politica, ma nessuno sa cosa si vuole da Mosca. Pensare che capitoli in Ucraina o si ritiri tout court dalla politica internazionale non è serio». Quindi, per favore, smettiamola di parlare di Guerra fredda. Quella era una cosa seria.

CODICE ETICO E LEGALE