Si nasce movimento, ma si finisce partito: la regola aurea della normalizzazione politica viene confermata. Il M5S nasce da una potente intuizione di Beppe Grillo che investe frontalmente il sistema politico all’insegna del bisogno di cancellare il profondo distacco fra classe dirigente e volontà popolare. Il risultato è facilmente condensabile nella miscela esplosiva che unisce due ingredienti sempre proficui nella narrazione politica: il “nuovo” e l’antipolitica. La novità consiste nel rifiutare l’etichetta di “partito” e nell’adottare quella di movimento, mentre l’antipolitica si materializza tramite la collaudata battaglia antipartitocratica di pannelliana memoria. Quest’ultima, in particolare, si traduce nella ricerca di una classe politica che provenga dalla società civile e cancelli la categoria dei “professionisti della politica”, composta da un’élite di privilegiati che perpetuano i loro mandati e i loro incarichi all’interno o nelle aree limitrofe al Palazzo. La rappresentanza parlamentare viene, dunque, declassata a semplice funzione di “portavoce del popolo”, cosicché chiunque può svolgere questo ruolo in quanto “uno vale uno”.
Scatta perciò la suggestiva proposta che gli eletti in Parlamento non possono ricoprire il “deprecabile” mandato oltre le due legislature, per non rischiare di essere investiti dai malefici miasmi prodotti da un sistema politico corrotto e ammaliante, ma soprattutto per non snaturare la purezza del movimento
S i tratta di una sintesi un po’ caricaturale, ma nella sostanza questi elementi costituiscono le ragioni di un successo travolgente, con cui il M5S stravince alle elezioni politiche del marzo 2018, conquistando la fiducia di un elettore su tre. Da quel momento il movimento registra un lento, ma inarrestabile, percorso che lo conduce alla fisiologica trasformazione in partito.
Cade uno dei principali requisiti che lo ha contraddistinto: nessuna alleanza. Nasce infatti l’esecutivo giallo-verde (con la Lega di Salvini), che rappresenta il primo compromesso imposto dalla logica dei sistemi democratici, che indicano nei governi di coalizione l’unico rimedio all’ingovernabilità a oltranza. Sarebbe inutile elencare tutti i successivi passaggi che segnano l’approdo del movimento alla struttura di partito.
È sufficiente prendere in esame l’ultimo stadio: l’archiviazione del limite dei due mandati parlamentari che intacca il principio cardine dell’originario movimento. “Uno non è più uguale a uno”, perché qualcuno diventa “più uno” degli altri. Nasce il “mandato zero”, formula assai maccheronica che ricorda molto il politichese della prima repubblica, in quanto maschera tramite un’alchimia aritmetica la possibilità di concedere a una robusta pattuglia di deputati grillini di mantenere la possibilità di continuare la propria attività nelle aule del Palazzo (Montecitorio o Madama).
Si tratta di nomi eccellenti che, di fatto, diventano una sorta di aristocrazia all’interno di un soggetto politico che voleva abbattere tutto ciò che richiamava il concetto di “casta”. In conclusione, quanto affermava il cinico ma brillante politologo fiorentino Giovanni Sartori, qualsiasi soggetto che si presenti alle elezioni e invii nelle sedi istituzionali i propri candidati con un programma condiviso è a tutti gli effetti un partito politico. Che lo si voglia o meno, quando ci si cimenta con la politica, non ci si potrà mai autoproclamare distanti dalla politica, allo stesso tempo quando si ambisce a vincere le elezioni si diventa inevitabilmente un “partito”.
Quindi, benvenuto M5S nel sistema di partito, in quanto questa trasformazione contribuisce a rendere il sistema politico italiano meno eccentrico e più stabile. E, come disse Franz Liszt, la politica è la scienza dell’opportunismo e l’arte del compromesso.
MARCO PIGNOTTI
[ L’UNIONE SARDA ]