Un drone statunitense ha ucciso in un attacco aereo mirato sull’aeroporto di Baghdad il generale iraniano Qasem Soleimani, capo delle Quds Force, ossia dell’unità di élite dei Pasdaran – con lui è stato ucciso anche il vicecapo delle Forze di mobilitazione popolari, la milizia ombrello delle milizie sciite in Iraq. C’è la conferma del Pentagono, c’è un tweet ermetico di Donald Trump – un’immagine della bandiera americana – c’è stato, definitivamente, il servizio della televisione di stato iraniana. Soleimani non è un semplice comandante, è in parte vettore in parte mente della politica estera aggressiva con cui l’Iran si è diffuso nella regione mediorientale attraverso la creazione di milizie collegate che hanno scalato il sistema sociale di alcuni paesi – come l’Iraq, il Libano, la Siria, o a Gaza e in Afghanistan – e hanno creato stati-negli-stati che Teheran controlla come satelliti.
In patria è considerato un eroe, un mito che ha già ricevuto una promozione postuma (tenente generale della Repubblica islamica, una carica col solo precedente di Qasem-Ali Zahirnejad, generale dopo la Rivoluzione). Da anni il leader laico del paese, trattato quasi alla pari della Guida Suprema Ali Khamenei, di cui è diretta espressione armata. Soleimani ricopriva contemporaneamente, nel mondo grigio della sue azioni, le funzioni di ministri come Esteri e Difesa, ma anche la guida dei servizi di intelligence e capo delle forze armate. Disponeva di carta bianca. Per fare due esempi recentissimi: durante le proteste con cui i cittadini iracheni nei giorni scorsi hanno manifestato la propria saturazione nei confronti del controllo che l’Iran esercita nel loro paese tramite le milizie, era volato a Baghdad e gestito lui personalmente la crisi politica e la risposta repressiva. In quegli stessi giorni ha fatto in modo di nominare un suo intimo a capo della sicurezza della Green Zone della capitale, l’area iper protetta in cui si trovano le ambasciate internazionali: era un metodo per ricattare i governi stranieri che hanno sede in Iraq e tenerli sempre sotto pressione.
L’attacco aereo che ha eliminato l’uomo che incarna l’attuale motivo di fondo dell’inimicizia tra Iran e Stati Uniti e alleati mediorientale – la perdita di influenza nella regione e il guadagno della stessa da parte delle milizie, e dell’Iran dunque – arriva in un momento delicatissimo. Le tensioni tra Teheran e Washington sono molto alte, sfociate in un attacco all’ambasciata americana a Baghdad che pochi giorni fa ha spostato le lancette indietro di quarant’anni, con immagini che sembravano quelle dell’assalto alla sede diplomatica in Iran nei giorni della rivoluzione khomeinista. L’azione americana contro Soleimani è destinata a uno scombussolamento geopolitico.
È possibile che l’uccisione del generale si porti dietro delle grosse conseguenze che coinvolgono Israele e i sauditi, ma anche il Libano e la Siria, e appunto l’Iraq (tutti equilibri che sono delicati e interessano anche l’Italia). Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, commenta che a questo punto si deve “essere preparati a ogni sorta di rappresaglia iraniana”, e aggiunge che “proprio mentre pensavi che [la situazione in] Medio Oriente non potesse peggiorare, poteva benissimo”. E poi spiega che “qualsiasi guerra con l’Iran non sembrerà la guerra del Golfo del 1990 o le guerre dell’Iraq del 2003. Sarà combattuta in tutta la regione con un’ampia gamma di strumenti contro una vasta gamma di obiettivi civili, economici e militari. La regione (e forse il mondo) sarà il campo di battaglia”.
Se finora lo scontro tra Stati Uniti – e Arabia Saudita, Emirati Arabi e Israele, in fronte compatto – e Iran è stato giocato su episodi a medio-bassa intensità e con coinvolgimento di attori indiretti da parte dell’Iran, ora è facile che la situazione salga di livello. Da giorni si susseguono voli di aerei da trasporto militari da basi statunitensi in Europa: sono tutti diretti in Medio Oriente, sono un rafforzamento del contingente militare su cui il capo del Pentagono ha fatto dei commenti molto chiari, dicendo che “le cose stanno cambiando” e che adesso gli Stati Uniti sono pronti ad agire contro le milizie – e dunque, come loro considerano, contro l’Iran – anche in forma pre-emptive, ossia attaccare per primi.
Se da un lato l’uccisione di Soleimani è una medaglia che insieme a quella del Califfo, Abu Bakr al Baghdadi, Trump intende appendersi sul petto – tanto la figura di Soleimani era considerata velenosa e manovratrice di fazioni anche terroristiche come Hezbollah o i gruppi che durante la guerra d’Iraq si vantavano di uccidere gli occidentali – dall’altro il raid diventa dunque un peso politico enorme per il presidente americano. Fin dall’inizio della sua campagna elettorale diceva che avrebbe messo fine alle “endless war“, e intendeva quelle in Medio Oriente che a suo modo di vedere costano più di quanto rendono. Ha per questo più volte annunciato il ritiro dal fronte siriano (che è il punto caldo nel confronto con l’Iran) e ha fatto sapere di voler chiudere un accordo con Teheran (uno dei nemici storici dell’America con cui Trump pensa a un avvicinamento anche dal valore elettorale).
Ma con l’uccisione di Soleimani tutte le situazioni potrebbero cambiare. Teheran ha dimostrato di saper affrontare con resilienza estrema il regime di massima pressione adottato da Washington – apparentemente senza un’exit strategy – e adesso potrebbe reagire. “Le notizie dall’Iraq sono una misura di giustizia, ma fatta con conseguenze inconoscibili. Dobbiamo proteggere la nostra gente in tutto il Medio Oriente e presumere una posizione di guerra. Dobbiamo anche rafforzare la nostra posizione in Iraq e mantenere la nostra presenza di coalizione. Mitigare i rischi di boomerang”, scrive su Twitter Brett McGurk, il più esperto americano sulla guerra in Siria, delegato a gestire il dossier sia dalla Casa Bianca targata Trump che prima con Barack Obama. “Dobbiamo essere pronti”, dice il senatore repubblicano Lindsey Graham commentando il follow up di un evento che si sta portando dietro una fitta serie di commenti, tanto è nevralgico per il futuro.
È il senatore Chris Murphy a sollevare pubblicamente una tra le domande interne più ficcanti: “L’America ha appena assassinato, senza alcuna autorizzazione congressuale, la seconda persona più potente in Iran, scatenando consapevolmente una potenziale massiccia guerra regionale?”. Ossia, Trump ha valutato completamente le conseguenze del raid? Secondo il Ceo del Center for a New American Security (CNAS), Richard Fontaine, tuttavia non è detto che comunque le conseguenze portino a una guerra: “Le prossime scelte da entrambe le parti saranno determinanti”, spiega, ma una cosa è chiara aggiunge: parlare “di un Medio Oriente post-americano è molto esagerato”.
Emanuele Rossi
[ formiche.net ]