Recep Tayyip Erdogan sarà presidente della Turchia per la terza volta e per altri cinque anni. Il presidente uscente, 69 anni, è stato riconfermato al secondo turno delle presidenziali, con uno scarto di circa quattro punti percentuali sullo sfidante (52,1% contro il 47,9% ottenuto da Kemal Kilicdaroglu, 74 anni); un risultato in linea con quanto prevedevano i sondaggi, e che lo consacra come lo statista più longevo nella storia della Repubblica turca, di cui quest’anno ricorre il centenario.
“La nostra gente ci ha dato ancora fiducia, sarà il secolo della Turchia” ha detto il capo dello Stato arringando la folla di sostenitori, pur sapendo che da domani dovrà governare un paese profondamente diviso. Mai prima d’ora era stato necessario ricorrere a un ballottaggio per esprimere nome del vincitore di un’elezione ed è sotto gli occhi di tutti che l’opposizione – eccezionalmente unita – ha raggiunto un risultato considerevole, sfiorando un’impresa storica. Non è stato abbastanza tuttavia per riuscire a spodestare Erdogan, riconfermato presidente nonostante tutto: le responsabilità della classe dirigente nel devastante terremoto di febbraio, la crisi economica, l’inflazione galoppante. “L’unico vincitore oggi è la Turchia” ha detto ancora Erdogan nel suo discorso della vittoria, e non si può dargli torto: gli elettori hanno dato una grande prova di democrazia. L’affluenza ha superato l’85%, in lieve calo rispetto al record del primo turno in cui aveva sfiorato il 90%, ma ancora molto alta.
Dai timori per l’economia…
Al di là dell’entusiasmo per la vittoria, l’avvio del terzo decennio al potere non sarà affatto semplice per Erdogan. Prova ne è il fatto che dopo l’annuncio della sua rielezione la lira ha toccato un nuovo minimo dopo aver perso, in un anno, il 18% nei confronti del dollaro e il 18,5% sull’euro. Sui mercati valutari la moneta turca sconta il timore di nuove ingerenze del capo dello Stato nelle scelte della banca centrale. Nonostante un’inflazione al 44%, infatti, i tassi di interesse vengono mantenuti artificiosamente bassi per volontà del governo che vuole evitare di rallentare la crescita economica. Le riserve di valuta estera ed oro si sono così ridotte a soli 17 miliardi di dollari. Secondo gli analisti, che si attendono ulteriori flessioni della lira, le attuali politiche monetarie sono insostenibili e prima o poi il governo sarà costretto a ad invertire la rotta. Se dopo il voto qualcosa dovesse cambiare si capirà innanzitutto dalle nomine di figure chiave come il ministero del Tesoro e delle Finanze, e il governatore della banca centrale.
…a quelli per la democrazia?
I timori dei critici di Erdogan non riguardano solo l’economia: nei suoi 20 anni al potere, la Turchia è scivolata lentamente ma inesorabilmente nell’autoritarismo. Il presidente ha consolidato la sua presa sul paese attraverso modifiche costituzionali, l’erosione di istituzioni democratiche, compresi il sistema giudiziario e i media, e ha incarcerato oppositori e critici, molti dei quali giornalisti. Nel suo discorso di vittoria, ieri sera ad Ankara, il presidente non ha mostrato accenni di moderazione e anzi ha attaccato duramente l’opposizione e la comunità LGBTQ. Entrambi potrebbero essere presi di mira da nuove i diritti umani e la libertà di parola potrebbero essere ulteriormente erosi negli anni a venire.
Chi voleva un cambio di direzione, quasi il 48% degli elettori, è deluso e spaventato. Molti prevedono che ci sarà più religione e meno libertà nella vita pubblica di una Repubblica giovane, che a ottobre si prepara a celebrare il suo centenario. Così, se il voto che si è appena tenuto può essere definito libero, è pur vero che si è svolto in un sistema affatto neutrale, in cui Erdogan è stato favorito e dove l’opposizione ha dovuto fare campagna elettorale in un clima a volte intimidatorio. “Stiamo arrivando a un punto in cui la Turchia si trasformerà in un paese in cui le elezioni potrebbero non avere importanza” osserva Gonul Tol sulle colonne della rivista Time.
Cosa significa per l’Occidente e il mondo?
Il risultato sancito dalle urne era quello che il presidente russo Vladimir Putin si augurava: non sorprende perciò che sia stato tra i primi a porgere le sue congratulazioni al leader turco. Putin però è stato solo il primo di una lunga lista e molti capi di Stato, europei compresi si sono felicitati con lui per la rielezione, pur avendo sperato in cuor loro di poter celebrare la fine dell’era Erdogan. Nel ventennio al potere, infatti, il leader turco ha consolidato la presenza di Ankara nella regione e oltre, ma perseguendo una politica estera non allineata e sempre più assertiva.
Con continui riferimenti all’impero ottomano non ha fatto mistero del fatto di voler riconciliare la Turchia moderna con il suo passato imperiale. Erdogan non è il solo a immaginare una politica estera più indipendente in un mondo più multipolare: altri paesi, come India e Brasile, stanno cercando di conservare i legami con Washington quando e dove serve, mantenendo una distanza strategica dove non serve. La differenza è che la Turchia è un membro della Nato. Mentre gli alleati del Patto Atlantico si interrogano sul significato della vittoria di Erdogan, il primo test per ‘nuovo corso’ turco avrà una data precisa: a luglio al vertice Nato di Vilnius alla Turchia verrà chiesto di revocare il veto sull’adesione della Svezia alla Nato.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)