Minacce e miliardi. È passata una settimana dal vertice con cui l’Unione Europa ha rinnovato il proprio sostegno alla Turchia, «partner strategico» per la gestione dei rifugiati. E già riesplodono le contraddizioni sottese all’accordo, avviato a marzo del 2016. Il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, ha parlato «di un dialogo franco e aperto» con Ankara, necessario «per trovare soluzioni a ciò che ci divide». In attesa delle soluzioni, altri tre miliardi sono stati inviati oltre il Bosforo. Facendo arrivare così a sei i miliardi promessi per fermare entro i confini turchi l’esodo dei profughi siriani.
Su come siano stati utilizzati i primi miliardi, però, una nuova inchiesta dei giornalisti di “The Black Sea” in collaborazione con L’Espresso e il consorzio investigativo EIC, solleva nuovi dubbi: dalle pressioni subite dalle Ong internazionali alla mancanza di trasparenza, alla valutazione degli interventi. Fino ai dissidi interni allo stesso comitato direttivo di Bruxelles, i cui verbali vengono pubblicati qui per la prima volta.
La nuova denuncia arriva in un momento sempre più teso, e imbarazzante, per il patto caro agli Stati europei. Il presidente turco Tayyp Erdogan è arrivato infatti ad augurare terrore a Parigi – «spero che la Francia non chieda il nostro aiuto quando i terroristi troveranno rifugio sul suo territorio», ha detto – dopo una dichiarazione francese sulla necessità di mediazione con i curdi. Ovvero con quelle truppe dell’Ypg, alleate dell’Occidente in prima fila nella lotta contro lo Stato Islamico, a cui Erdogan ha dichiarato guerra. Iniziando dal massacro di Afrin, per continuare nelle zone liberate dai curdi. È notizia di questi giorni che nell’empasse diplomatico internazionale la città di Manbij, dove sono stanziati anche soldati statunitensi, si prepara all’aggressione da parte dell’esercito turco.
Nelle zone che sta conquistando, costringendo alla fuga migliaia di civili, Ankara sostiene di voler portare quegli stessi siriani che l’Europa la aiuta ad accogliere. Oggi la Turchia ospita tre milioni e settecentomila persone, fra bimbi nati nelle strutture d’accoglienza e famiglie siriane fuggite dal conflitto. È per aiutare il governo turco nella gestione di questo popolo sradicato, fermando l’esodo verso le nazioni europee, che nel marzo del 2016 i paesi Ue hanno deciso il pacchetto d’aiuti. Come L’Espresso ha denunciato la scorsa settimana, fra i canali di finanziamento sono finite anche forniture militari. Ma non è il solo aspetto problematico della relazione fra Bruxelles e Ankara sui profughi. Sui fondi, rivela infatti la nuova inchiesta condotta dai giornalisti di “The Black Sea” in collaborazione con il consorzio investigativo EIC, sono sospese altre zone opache. A partire dalla difficoltà nel valutare l’impatto dei fondi investiti.
Uno dei punti chiave dell’accordo era, ad esempio, il ricollocamento in Turchia dei siriani rimasti bloccati sulle isole greche. Nonostante i 60 milioni di euro forniti per questo specifico obiettivo, meno di 1.200 profughi sono partiti da Atene per Istanbul. Il fallimento dell’iniziativa ricorda la lentezza con cui stanno procedendo altri progetti. Delle 26 maggiori infrastrutture programmate, meno della metà è stata avviata. Le altre sono nel limbo. Per alcune è prevista una conclusione nel 2021. Uno dei target prioritari dei finanziamenti Ue, infatti, è la costruzione di ospedali e scuole. Sono stati stanziati così 40 milioni di euro per una clinica da 300 posti nella città di Kilis. E altri 50 milioni per una struttura capace di accogliere 250 pazienti a Hatay, vicino al muro che divide dal confine siriano. Nessuno dei due ospedali è in costruzione. E per quanto riguarda le scuole, se la Banca per lo sviluppo tedesca “KfW” ha quasi completato l’installazione di 60 prefabbricati, un altro piano da 50 istituti scolastici, promosso dalla Banca Mondiale, è ancora fermo.
L’ambasciatore europeo ad Ankara, Christian Berger, nega si tratti di ritardi. Sono solamente i tempi necessari, risponde, e previsti. Anzi, sottolinea Berger: quasi due miliardi di euro sono già stati spesi, ovvero trasferiti ai partner internazionali – Ong e agenzie delle Nazioni Unite che lavorano sul campo in Turchia. Il “World Food Programme”, WFP, ad esempio, ha ricevuto quasi un miliardo di euro per il supporto umanitario ai rifugiati in Turchia. Il programma prevede il pagamento di un piccolo contributo mensile per un milione e duecentomila profughi. Il WFP, come molte altre organizzazioni, ha diritto a trattenere il sette per cento dell’appalto, come costo amministrativo. In questo caso, sono circa 70 milioni di euro rimasti per l’istituzione.
Oltre ai fondi garantiti alle organizzazioni mondiali, 660 milioni di euro sono stati trasferiti direttamente a tre ministeri turchi: Migrazioni, Educazione e Salute. Sul dettaglio di queste spese, sulla documentazione che ne provi i risultati, la Commissione Europea non è stata in grado di fornire risposte. L’unico progetto turco su cui ha fornito specifiche riguarda la costruzione di un centro di detenzione per rifugiati nella provincia di Çankırı. È il 19esimo di questo tipo in Turchia. «Tutte le spese sono soggette a verifiche di controllori indipendenti», ha voluto sottolineare il portavoce della Commissione. Ma ad oggi nessuna di queste verifiche è mai stata resa pubblica: un controllo democratico su quanto viene finanziato, sul territorio, è praticamente impossibile.
Le difficoltà, i ritardi e le contraddizioni non sfuggono agli stessi politici europei. Così dimostrano almeno i resoconti classificati come «confidenziali», in alcuni casi addirittura «segreti» del comitato direttivo che presiede alla gestione dell’accordo. I nomi dei rappresentanti nazionali che partecipano alle riunioni non sono pubblici. E gli stessi verbali non erano mai divulgati prima. Ora sono stati ottenuti dai giornalisti di “The Black Sea” e condivisi con il consorzio EIC. E mostrano ad esempio come rispetto ai ritardi, l’unica preoccupazione del comitato fosse quella di spostare i fondi ad altri obiettivi, piuttosto che di approfondire le verifiche sul campo. In occasione di uno degli ultimi incontri, però, alcuni partecipanti si dicono «molto insoddisfatti» dalla fretta che ha la Commissione nell’approvare la nuova tranche di tre miliardi ad Ankara. C’è chi suggerisce di usare i soldi già stanziati per l’avvicinamento della Turchia agli standard Europei, o il budget dell’Eurozona, piuttosto che chiedere ai paesi ulteriori contributi. Ma soprattutto emerge la preoccupazione per il trattamento che le organizzazioni europee e internazionali ricevono ad Ankara.
Diversi rappresentanti parlano spesso infatti della «forte pressione sulle Ong» esercitata dal governo turco. Le Ong sono un elemento essenziale per far funzionare l’accordo sui profughi. Le regole Ue prevedono infatti che solo enti con sede in un paese europeo possano ricevere i fondi umanitari. Jean-Louis de Brouwer, direttore del dipartimento che se ne occupa (ECHO), per la Commissione, durante l’incontro di novembre racconta, mostrano i verbali, come il ministero degli Interni abbia «un approccio rigoroso sulle Ong in merito alla sicurezza». Il rigore include: revocare autorizzazioni, rallentare le gare, garantire permessi solo per pochi mesi, ostacolare la concessione di nuovi visti ai volontari.
Queste misure arrivano a un obiettivo: impaurire le realtà straniere che lavorano nella solidarietà. I precedenti non mancano. L’anno scorso la Turchia ha espulso ad esempio la Mercy Corps, una organizzazione non governativa che ha dovuto chiudere i suoi uffici a Gaziantep e sospendere tutte le attività, anche quelle finanziate dalla Ue, per l’accusa di essere «affiliata a gruppi terroristici». Un operatore umanitario che ha avuto a che fare con il caso, e ha chiesto di rimanere anonimo, racconta di vere e proprie campagne intimidatorie realizzate attraverso media governativi, su cui venivano esposti anche i singoli nomi di alti dirigenti dell’organizzazione. La pressione non veniva esercitata solo su di loro, ma anche su molti altri. «Nessuno vuole parlare di quel che accade, perché se lo fai, sai cosa ti aspetta», racconta. Questa tensione, e l’autocensura al silenzio che porta con se, hanno pervaso ogni struttura europea presente sul campo. Tutti i volontari con cui abbiamo parlato hanno chiesto di rimanere anonimi se interrogati sull’attività svolta.
The Black Sea” ha contattato poi tutte le organizzazioni che hanno ricevuto fondi legati all’accordo. Poche hanno risposto e con informazioni imparziali. La maggior parte ha detto di non voler parlare con i giornalisti. Handicap International, una non-profit basata in Francia, ha dichiarato che «non comunica con la stampa», citando le difficili condizioni in Turchia. Le poche informazioni che si possono ricostruire, passano dai bilanci ufficiali degli enti stessi, quando esistono. Nella valutazione di uno dei suoi progetti, la distribuzione di un voucher elettronico a circa 66mila rifugiati, la tedesca «Welthungerhilf» ammette ad esempio alcune difficoltà. Come il fatto che la breve durata del finanziamento e la mancanza di sinergie, anziché dare un sostegno strutturale alle famiglie, avesse creato più che altro tensioni e gelosie.
Tutti questi ostacoli sono stati rimossi, però. Al vertice di settimana scorsa il piano del 2016 ha avuto un nuovo ok. Altri tre miliardi sono partiti per la Turchia. «E pensare che un migrante che arrivi in Italia attraverso un canale legale e sicuro, come il corridoio umanitario organizzato dalle chiese evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio», riflette, controvento, l’ex senatore Luigi Manconi: «comporta un costo complessivo, fino alla prima integrazione, tra i mille e i 2mila euro». «È ovvio che un simile calcolo aritmetico non può essere proiettato automaticamente su grande scala», conclude: «ma con i sei miliardi dati alla Turchia dall’Unione europea si sarebbero potuti accogliere almeno tre milioni di persone…». La percezione pubblica, e politica, continua a vedere però questa come una tremenda minaccia. Da cui difendersi. A costo della vita, degli altri.
Autori: Craig Shaw (The Black Sea), Zeynep Şentek, (The Black Sea), Şebnem Arsu (The Black Sea), John Hansen (Politiken), Emilie Ekeberg (Danwatch), Hanneke Chin-A-Fo (NRC)