domenica, 24 Novembre 2024

TUTTI I PERICOLI DELLA MISSIONE ITALIANA IN NIGER

ANDREA DE GEORGIO (L’Espresso)

«Via libera della Camera alle missioni internazionali. Da Afghanistan a Iraq, da Libano a Kosovo, da Libia a Niger forze armate e cooperazione italiana lavorano per pace, sviluppo e stabilità, contro terrorismo e traffico di esseri umani». Con questo tweet Paolo Gentiloni ha salutato l’approvazione del decreto missioni votato il 17 gennaio a larga maggioranza dal Parlamento.

Nonostante le Camere sciolte il governo ha «urgentemente» deciso di ridimensionare le truppe italiane dispiegate in vecchi teatri come Afghanistan e Iraq in favore di nuove missioni in Africa e, in particolare, nella turbolenta zona del Sahel. Qui, infatti, si gioca un’importante partita di riposizionamento geopolitico a cui l’Italia ha deciso di partecipare attivamente con l’invio di 470 soldati, 130 mezzi terrestri e due aerei (costo complessivo per il 2018: 50 milioni di euro).

Il Niger, paese finora strategicamente periferico sullo scacchiere globale, negli ultimi tempi è finito al centro dell’interesse delle potenze occidentali principalmente a causa della sua posizione geografica. Collocato nel cuore della fascia sahelo-sahariana, questo esteso Paese è il principale crocevia dei traffici illeciti che transitano nella regione. Droga, armi ed esseri umani, soprattutto, ma anche valuta, macchine, sigarette, medicinali e altri prodotti contraffatti che attraversano porosi confini di sabbia difficilmente controllabili dai paesi africani. Reti informali di trafficanti tuareg e tebu (le due etnie principali che abitano questa zona del deserto del Sahara) fanno affari con numerose sigle jihadiste e, da qualche anno, gestiscono anche il flusso di migranti subsahariani in transito nel deserto verso il Nordafrica e, da lì, verso l’Europa.

A seguito dei precedenti interventi occidentali in Libia (2011) e Mali (2013) questa regione del mondo è caratterizzata da forte instabilità dei governi locali sotto la costante (e crescente) pressione terrorista di gruppi legati ad Al Qaeda nel Maghreb islamico e al sedicente Stato islamico. Contrastato in Medio Oriente (Siria e Iraq), il jihadismo contemporaneo vede nel Sahel un terreno fertile per la creazione di nuovi feudi e il reclutamento di forze fresche nella lotta globale.

L’imminente missione italiana in Niger (120 effettivi nel primo semestre del 2018) sarà dislocata nella capitale Niamey e, in misura maggiore, nella remota regione settentrionale di Agadez, più precisamente nel fortino di Madama, base controllata dai francesi a circa 100 chilometri dall’irrequieto confine sud della Libia. Qui i paracadutisti italiani affiancheranno i soldati di vari dispositivi già dislocati. Capofila dell’interventismo nel Sahel resta, ovviamente, la Francia . Con 4000 uomini, caccia, droni e basi sparse dalla Mauritania al Ciad (Operazione Barkhane), l’Eliseo fa sentire il peso di decenni di relazioni privilegiate con le ex colonie dell’Africa occidentale nel tentativo di mantenere la leadership in una regione in cui nuovi attori – come Cina, India e SudAfrica – cercano di espandersi.

Le risorse del sottosuolo di cui il Niger è ricco fanno gola a molti. Uranio, petrolio, gas naturale, diamanti, oro e altro ancora. Areva, colosso energetico francese presente nel paese dagli anni Cinquanta, nonostante il recente crollo del prezzo mondiale dell’uranio, continua ad estrarre qui un terzo del fabbisogno delle centrali nucleari di Francia, mentre oltre l’80 per cento della popolazione locale non ha accesso all’elettricità.

Nella capitale Niamey e nella regione di Agadez, dove si concentrano i principali giacimenti d’uranio e di altre risorse, sono dispiegati anche mille soldati americani. Africom, comando Usa in Africa e principale alleato della Francia nella “lotta al terrorismo globale”, sta rafforzando la propria presenza in Niger con la costruzione di una base aerea ad Agadez da 100 milioni di dollari, mentre droni armati MQ-9 Reaper con un’autonomia di 1500 chilometri, decollano dalla base di Niamey per dare la caccia ai barbuti. Una missione “lontana e costosa” fortemente criticata dall’opinione pubblica americana, soprattutto dopo la morte a ottobre di quattro marine caduti in un’imboscata jihadista non lontano dalla frontiera col Mali.

Nonostante i rischi, anche la Germania non intende rimanere indietro nella corsa al Niger. Messo in campo nel corso del 2017, il contingente tedesco nel Sahel rappresenta la più consistente missione estera votata dal Bundestag dopo la Seconda guerra mondiale. Un dispiegamento di un migliaio di uomini in supporto alla missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite presente in Mali dal 2014 (Minusma) e della “Force G5 Sahel”, forza regionale fortemente voluta dalla Francia che dovrebbe raggruppare gli eserciti di Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad ma che stenta a decollare per mancanza di fondi. “Soluzioni africane a problemi africani”, come di facciata chiedono le potenze occidentali, per cui sarebbero necessari almeno 450 milioni di euro, di cui soltanto un’esigua parte è stata finora stanziata da Ue, Francia, Usa, Italia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Unione Africana.

La militarizzazione del Sahel operata da francesi, americani e tedeschi segue specifiche strategie di controllo territoriale e interessi neocoloniali a cui l’Italia è, per il momento, estranea. L’apertura della prima ambasciata nella regione, avvenuta a febbraio a Niamey, ha sancito la volontà diplomatica dell’Italia di migliorare i rapporti bilaterali con i Paesi del Sahel di cui il Niger è oggi esempio. Il pacchetto di finanziamenti del Eu Emergency Trust Fund for Africa – 190 milioni di euro promessi al Niger, paese prioritario assieme ad altri vicini, ma condizionati al rafforzamento dei controlli dei confini e al contenimento dei migranti in transito – sono il fulcro economico del progetto di esternalizzazione delle frontiere e della sicurezza dell’Europa di cui l’Italia si fa portavoce. Se le altre missioni occidentali sono ufficialmente focalizzate sulla lotta al terrorismo, con il dispiegamento in Niger il nostro paese mette invece l’accento sul nesso fra sviluppo, sicurezza e migrazioni, principio su cui si sta disperatamente cercando di rinsaldare la politica estera europea.

In quest’ottica dopo gli screzi con la Francia sulla Libia e sulla gestione dei migranti in Europa, con l’avventura nigerina il governo Gentiloni dimostra a Emmanuel Macron la rinnovata volontà di collaborare sulle basi espresse dal vertice di Abidjan di fine novembre.

Un mero favore alla Francia, dunque, o l’inizio di un nuovo approccio nei rapporti fra Europa e Africa? È ancora presto per dirlo. La missione italiana in Niger, però, mostra non poche ombre e criticità. Oltre ai rischi insiti in un teatro insidioso – la frontiera con la Libia è una lingua di sabbia e campi minati lunga più di 600 chilometri, non è ancora chiaro se la nostra sarà una missione combattiva o solo d’addestramento delle forze nigerine – è la situazione politica interna del paese che desta maggiore preoccupazione. Il presidente Mahamadou Issoufou, rieletto nel 2016 al secondo mandato con elezioni contestate dall’opposizione, sta perdendo legittimità anche a causa della gestione poco trasparente dei fondi europei che stanno piovendo sul paese.

Come denunciano diverse organizzazioni della società civile nigerina (i cui leader sono costantemente minacciati e incarcerati) l’economia già fragile della regione di Agadez è stata duramente colpita dalla criminalizzazione delle migrazioni decisa l’anno scorso da Issoufou per accontentare le richieste europee. La parziale chiusura di Agadez, antica “Porta del deserto”, ha reso il viaggio dei subsahariani di passaggio nel nord del Niger ancora più pericoloso, lungo e costoso. Una degenerazione delle condizioni umanitarie per i migranti in transito che, continuano gli attivisti nigerini, non sta portando ad un contenimento delle partenze ma bensì all’aumento dei dispersi nel deserto. Morti silenziose che difficilmente fanno notizia in Europa, stimate fra due e tre volte superiori a quelle nel Mediterraneo.

La “politica del bastone e la carota”, come viene chiamato in Niger l’approccio sostanzialmente repressivo dell’Unione europea in tema di migrazioni, non porterà risultati positivi se l’opzione militare nel Sahel non verrà supportata da un più ampio tentativo di comprensione di un fenomeno diventato strutturale e multisfaccettato come quello della mobilità globale. Solo così “pace, sviluppo e stabilità” di cui cinguettano Gentiloni e gli altri leader europei non resteranno concetti retorici svuotati di significato. Per la nostra come l’altrui sicurezza, oggi più che mai correlate.

 CODICE ETICO E LEGALE