Il fact-checking ISPI sulla crisi Russia-Ucraina, a due anni dall’inizio del più grave conflitto della recente storia europea.
1. La controffensiva ucraina è davvero fallita? Si, ma…
Della controffensiva ucraina iniziata la scorsa estate si è parlato a lungo. Seppur nessun funzionario politico o militare ucraino abbia mai esposto chiaramente gli obiettivi dell’operazione, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il suo entourage hanno più volte espresso la volontà di liberare tutti i territori occupati dalle truppe di Mosca – inclusa la Crimea, annessa dalla Federazione Russa già a marzo 2014. Pur sviluppandosi anche in alcune aree del fronte a est, la controffensiva ucraina ambiva principalmente a isolare la Crimea dai territori orientali del Donbass, sotto il controllo del Cremlino. A tal fine, Kiev auspicava di far breccia nelle difese russe nell’oblast’ di Zaporizhzhya, alla volta del Mar Nero – in direzione della città di Melitopol. Ciò avrebbe permesso non solo di tagliare in due l’occupazione dell’Ucraina meridionale, ma anche di compromettere le linee di rifornimento delle forze armate russe a sud.
Tuttavia, le aspettative ucraine si sono dovute confrontare con la realtà dei fatti. In totale, da giugno a dicembre 2023, lungo la direttrice sud nell’oblast’ di Zaporizhzhya, le forze ucraine sono riuscite ad avanzare solo di circa 7,5 km nel territorio controllato dai russi. Il momento culminante è arrivato a fine agosto, quando Kiev ha conseguito una penetrazione tattica al di là della prima linea (su tre) del sistema difensivo russo, fino all’insediamento di Robotyne. Assestandosi in quest’area, la riscossa ucraina si è incagliata a oltre 80 chilometri da Melitopol, e a poco più di 20 chilometri da Tokmak – cittadina sulla strada per Melitopol e importante hub logistico russo, la cui presa, al crescere delle difficoltà, è stata identificata da ufficiali ucraini come l’obiettivo strategico minimo della controffensiva. Un ulteriore dato evidenzia l’incapacità della controffensiva di girare l’inerzia a favore dell’Ucraina: secondo alcune elaborazioni, nel 2023 sia Mosca che Kiev avrebbero sottratto intorno allo 0,08-0,09% di territorio conteso al nemico, fondamentalmente creando la situazione di stallo descritta all’Economist dall’ex comandante delle forze armate ucraine Valery Zaluzhny, rimosso da Zelensky l’8 febbraio scorso. Secondo indiscrezioni di stampa mai confermate da Kiev, il generale avrebbe scontato così la sua “eccessiva popolarità”, oltre che disaccordi con la presidenza. A inizio dicembre, lo stesso Zelensky ha riconosciuto che la controffensiva non avesse “ottenuto i risultati desiderati” e che la guerra stesse entrando in una “nuova fase.” Una versione a cui han fatto eco poche settimane dopo le parole di altri funzionari ucraini, come il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba e il capo dell’intelligence Kyrylo Budanov.
Tuttavia, c’è un fronte su cui Kiev ha collezionato indubbie vittorie strategiche e politiche: il Mar Nero. Contestualmente alle operazioni di terra, l’Ucraina ha intensificato la propria campagna contro obiettivi e navigli russi in Crimea. Il caso più eclatante risale al 22 settembre scorso, quando una serie di attacchi con missili Storm Shadow su Sebastopoli ha danneggiato svariate imbarcazioni e distrutto il quartier generale della Flotta russa del Mar Nero – una rappresaglia in cui, nonostante le smentite russe, sarebbe peraltro rimasto ucciso il comandante della Flotta, l’ammiraglio Viktor Sokolov. A testimonianza del successo delle azioni di Kiev, negli ultimi mesi, gran parte della Flotta russa ha ripiegato a est, verso il porto di Novorossiysk. Anche se la mancanza di una grande avanzata terrestre ha oscurato questi successi, la loro rilevanza resta innegabile: infatti, la Flotta Russa non può più operare liberamente nel Mar Nero Occidentale, lì dove l’Ucraina ha costituto il corridoio navale per l’esportazione del proprio grano verso i mercati globali. Ciò ha contribuito a dare sollievo alle martoriate finanze di Kiev, ma anche uno schiaffo a Mosca, che con il ritiro dall’Accordo sul Grano pensava di mettere in ginocchio l’Ucraina.
2. Le sanzioni europee funzionano? NO, MA…
Dal febbraio 2022, Bruxelles ha imposto 13 pacchetti di sanzioni, l’ultimo approvato in concomitanza del secondo anniversario dell’invasione. Le sanzioni colpiscono, tra gli altri, il settore finanziario, commerciale ed energetico russo. Ad oggi, con 16.587 misure, la Russia è il paese più sanzionato al mondo. Tuttavia, le valutazioni sull’efficacia delle sanzioni divergono molto, evidenziandone gli effetti ora devastanti ora superficiali.
Come dichiarato dalla Commissione Europea, le sanzioni “senza precedenti” alla Russia sono state imposte con una triplice finalità: indebolire la capacità del Cremlino di finanziare la guerra, infliggere costi economici e politici chiari all’élite politica russa ed erodere la base economica della Russia. In primo luogo, è evidente che l’Europa non sia riuscita a fermare la macchina bellica del Cremlino. Inoltre, nonostante previsioni che la davano in dirittura di default già nei primi mesi dell’invasione, l’economia russa continua a reggere. Anzi, secondo l’ultimo World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale (FMI), dopo aver chiuso il 2023 con una crescita del 3%, quest’anno il PIL russo dovrebbe registrare un ulteriore rialzo del 2,6%, a fronte dello 0,9% pronosticato per i Paesi dell’Eurozona. Infine, se da un lato è difficile determinare l’effettivo impatto delle misure sanzionatorie sulla classe dirigenziale russa, dall’altro l’indice di gradimento del presidente Vladimir Putin a gennaio 2024 – costante intorno all’85% – suggerisce che rimane saldamente al timone del Paese.
Le motivazioni alla base dell’apparente inefficacia delle sanzioni sono molteplici. Innanzitutto, il regime sanzionatorio è stato imposto dal solo “Occidente collettivo”. All’enorme mole di sanzioni dirette contro Mosca dal febbraio 2022 non è corrisposta una altrettanto massiccia partecipazione al di fuori dell’emisfero occidentale. Pertanto, la Russia è riuscita in parte a colmare il vuoto lasciato da quello che era il suo principale partner commerciale e acquirente di idrocarburi – ovvero l’Unione Europea – con il riorientamento verso mercati del cosiddetto “Sud Globale” o non allineati alle sanzioni. Il caso forse più indicativo è l’accresciuta sinergia con la Cina, il cui interscambio con Mosca nel 2023 ha raggiunto il valore di 240 miliardi di dollari, 26,3% in più rispetto al precedente record di 190 miliardi di dollari del 2022. Il mancato rispetto del quadro sanzionatorio occidentale si è dimostrata utile a Mosca anche per aggirare i divieti alle esportazioni, con molti Paesi che hanno rimodellato le proprie linee logistiche alla volta della Russia, facendo rerouting di beni e prodotti su Paesi terzi che non hanno aderito alle restrizioni. Seppur messa al bando dall’UE e sottoposta a controlli sempre più rigidi, la triangolazione di beni verso la Russia si è rivelata pratica diffusa, anche da parte europea. Non è un caso che molte aziende occidentali abbiano aumentato il flusso di beni sanzionati (talvolta dual use, come semiconduttori) verso Paesi quali l’Armenia, il Kirghizistan o il Kazakistan, che con il Cremlino mantengono tuttora saldi rapporti economici.
Tuttavia, pure sostenere che le sanzioni non abbiano avuto alcun impatto sull’economia di Mosca è fuorviante. Se le ultime proiezioni FMI danno l’economia russa in ascesa, un recente studio del Dipartimento del Tesoro americano sostiene che, senza l’invasione e le conseguenti sanzioni, il PIL della Russia sarebbe stato di oltre il 5% più grande rispetto a oggi. Inoltre, ormai da due anni Mosca sta militarizzando sempre più la propria economia. L’accentramento della forza lavoro nell’industria militare, insieme alla perpetua campagna di reclutamento e all’esodo dei cittadini in fuga dal Paese, acutizza il fenomeno della fuga dei cervelli e sottrae manodopera a tutti i settori non militari. Se questa tendenza ha condotto la Russia ai minimi storici in termini di disoccupazione, la necessità di attirare i pochi lavoratori disponibili ha condotto a un aumento generalizzato dei salari, con l’inflazione che intanto, da qualche mese, è tornata nuovamente a salire. A parte questo rischioso surriscaldamento, più a lungo il settore bellico resterà il driver della crescita, più complesso risulterà riconvertire l’economia russa a civile alla fine del conflitto. Nel 2024, il governo russo prevede di investire circa un terzo del bilancio totale nella Difesa, con le spese militari che, secondo alcune stime, dovrebbero crescere del 29% rispetto al 2023 a circa 12,7 trilioni di rubli (circa 140 miliardi di dollari). Nel 2023 Mosca è riuscita a mantenere i ricavi delle vendite degli idrocarburi (seppur ridotti) al di sopra della media degli ultimi dieci anni – a cui il Cremlino ha ovviato anche con pagamenti una tantum e “donazioni volontarie” imposte alle aziende occidentali che lasciano il Paese. Tuttavia, la volatilità dei prezzi delle materie prime e un eventuale inasprimento delle sanzioni lasciano incertezza sul settore che da sempre è tra le principali fonti di finanziamento del bilancio federale.
Insomma, nonostante le sanzioni, l’economia russa regge. Ma il boom nella produzione di armamenti e l’esasperato focus sulla Difesa, che non sono indici di una crescita sostenibile a lungo termine, i dubbi legati al sostentamento del budget federale e il ridimensionamento, de facto, a junior partner della Cina delineano un futuro non necessariamente roseo per Mosca.
3. Energia: l’Europa è finalmente indipendente dalla Russia? NO
È sicuramente vero che le importazioni UE di gas naturale russo sono crollate rispetto ai massimi precrisi. Ancora prima dell’invasione, la strategia di Mosca di cominciare a “socchiudere” i rubinetti del gas per mettere sotto pressione i paesi europei aveva portato a una riduzione media dei flussi del 15%. A un paio di mesi dall’invasione, tuttavia, il crollo è stato verticale. Adducendo una serie di giustificazioni per evitare le penali commerciali, la Russia ha cominciato a tagliare le forniture verso l’Europa fino al 75%. L’Europa è stata costretta a trovare rapidamente forniture alternative, che sono arrivate, grazie soprattutto al forte ruolo giocato dal gas naturale liquefatto (GNL) americano. Così l’UE, che prima della crisi importava quasi metà (45%) del proprio gas dalla Russia, è scesa a un livello di dipendenza da Mosca del 15%.
Oggi, però, è l’Europa a continuare ad avere bisogno di importare gas russo, così come è Mosca ad avere bisogno di venderlo. Va innanzitutto ricordato che il gas russo non è mai stato sanzionato collettivamente dall’UE, ma solo da singoli paesi come Polonia e Lituania. E, a dimostrazione che l’UE preferisce ancora oggi non fare a meno del gas russo, tra la metà del 2023 e le prime settimane del 2024 si assiste a un lento ma costante aumento delle forniture russe verso l’UE, via gasdotto o via mare con il GNL. Livelli del tutto incomparabili a quelli precrisi, ma che dimostrano che la completa indipendenza dell’UE dal gas in arrivo da Mosca è ancora lontana.
4. Gli aiuti occidentali sono davvero diminuiti? SÌ
Nel corso dei primi due anni dall’invasione, gli alleati europei e americani hanno fornito all’Ucraina una media di 110 miliardi di euro l’anno per sostenere lo sforzo bellico, preservare il funzionamento dello stato e proteggere la popolazione in fuga dalla guerra. Malgrado si tratti solo dello 0,3% del PIL prodotto da UE e USA, quell’aiuto ha incontrato resistenze sempre più forti da entrambe le sponde dell’Atlantico.
Oggi, l’Unione europea è riuscita ad approvare il proprio pacchetto d’aiuti da 50 miliardi di euro solo poche settimane fa, dopo che l’Ungheria di Orban ha deciso di togliere il veto alla decisione. Sembrano molti soldi, ma vanno spalmati nei prossimi quattro anni. Supponendo che anche gli Stati membri europei operino un taglio simile degli aiuti (vicino a un –75%), il totale degli aiuti europei ammonterebbe a soli 21 miliardi l’anno. Negli Stati Uniti, nel frattempo, malgrado il Senato abbia approvato il pacchetto di aiuti da 60 miliardi di dollari (55 miliardi di euro), la misura è al momento bloccata alla Camera dei rappresentanti. Anche se dovesse passare, è sempre più probabile che si possa trattare dell’ultima tranche di aiuti, soprattutto in caso di elezione di Donald Trump a novembre. Così l’intero aiuto alleato pare destinato a scendere molto: dai 110 miliardi di euro l’anno menzionati in precedenza, a 35 miliardi l’anno fino al 2027.
5. L’Ucraina sta progredendo nel suo cammino verso l’adesione all’UE? SÌ, MA…
Sì, l’Ucraina sta senza dubbio procedendo nel suo percorso di adesione. Ciò non significa che l’Ucraina diventerà a breve membro dell’Unione Europea: la durata del percorso di adesione, infatti, non è direttamente proporzionale alla rapidità con cui si ottiene lo status di paese candidato. Secondo la Commissione, le istituzioni ucraine hanno compiuto progressi nel garantire il rispetto della democrazia e dello stato di diritto, soprattutto in ambito giudiziario e in materia di antiriciclaggio. L’apertura dei negoziati, tuttavia, rappresenta soprattutto un potente atto simbolico: un segnale del sostegno politico prolungato dell’Europa a Kiev, ma che lascia in sospeso alcune delle questioni più delicate da affrontare. Tra gli ostacoli che verosimilmente rallenteranno il processo si possono individuare due temi principali: economia e sicurezza.
L’adesione all’UE presuppone che i paesi candidati abbiano un’economia di mercato solida e che possa far fronte alle pressioni concorrenziali all’interno dell’Unione, ma l’Ucraina è chiaramente in difficoltà sotto questo punto di vista. L’ultimo aggiornamento del report della World Bank sugli impatti della guerra stima che per la ricostruzione dell’Ucraina serviranno circa €440 miliardi su un orizzonte temporale di 10 anni. Molte di queste risorse dovranno essere impiegate, oltre che per la ricostruzione di infrastrutture danneggiate dagli attacchi russi, per aumentare la produttività del paese e migliorare l’attrattività per gli investimenti diretti esteri. Senza dimenticare il drastico calo della forza lavoro: a inizio 2022 la popolazione ucraina era di circa 43 milioni di abitanti, ma da allora più di 6 milioni di persone hanno abbandonato il paese e non è possibile prevedere quanti torneranno. Considerando che l’Ucraina è ancora in guerra e che circa la metà del suo budget annuale è attualmente destinata alla difesa, l’impresa appare davvero ardua. L’adesione dell’Ucraina influenzerebbe significativamente la ridistribuzione dei fondi comunitari, con alcuni membri che potrebbero passare da essere beneficiari a contributori netti. In particolare, secondo le attuali disposizioni, un’altissima percentuale dei finanziamenti previsti nell’ambito della Politica Agricola Comune (PAC) spetterebbe all’Ucraina in virtù del suo imponente settore agricolo. Un tema particolarmente delicato, come dimostrano le recenti proteste degli agricoltori, così come quello dell’ingresso nel mercato unico: nonostante il processo di integrazione commerciale tra UE Ucraina abbia già ricevuto un forte impulso con l’Accordo di Associazione siglato nel 2014, la rimozione provvisoria dei dazi sui beni ucraini ha generato reazioni forti come il blocco del grano e dei camionisti.
Oltre alle difficoltà economiche, permangono interrogativi di natura strategica. Il processo decisionale nell’UE è spesso macchinoso e da tempo si discute di ampliare il numero di settori per cui impiegare la votazione a maggioranza qualificata. Poiché un maggiore numero di membri renderebbe più complesso prendere decisioni unanimi, è difficile pensare all’allargamento senza prima portare a termine una riforma istituzionale europea. Inoltre, è attualmente impossibile delimitare con esattezza i confini del territorio ucraino e un accordo di pace è necessario quantomeno per cristallizzare la situazione geografica. Tuttavia, anche se questo dovesse avvenire a breve, e anche se una eventuale revisione dei confini fosse favorevole all’Ucraina, la minaccia russa non sparirebbe. Anzi, non è chiaro quanto estendere il territorio UE fino al confine con la Russia possa essere pericoloso. Da una parte l’Ucraina, forte del principio di difesa reciproca sancito nell’Art.42 par.7 TUE, potrebbe sentirsi maggiormente al sicuro da una nuova aggressione russa; dall’altra, però, vi è il rischio ancora maggiore che la Russia chiami il “bluff europeo”: l’UE avrebbe infatti serie difficoltà a reagire militarmente in maniera coesa ed efficace, se Putin decidesse di attaccare uno Stato membro. L’agognata autonomia strategica è ancora lontana e le recenti dichiarazioni di Donald Trump seminano incertezza sul futuro della cooperazione militare transatlantica. Se l’Ucraina diventasse membro dell’UE ma non della NATO, Bruxelles rischierebbe di non poter garantire sufficiente sicurezza nemmeno a sé stessa.
ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale)