Cosa hanno in comune il ragionier Ugo Fantozzi, il “borghese piccolo piccolo” di Vincenzo Cerami e Mario Monicelli, il medico della mutua Guido Tersilli/Alberto Sordi? Con le dovute differenze, facevano tutti parte della cosiddetta classe media. Una definizione che, dal dopoguerra in poi, ha raccontato la parte più rilevante della popolazione italiana. Segni particolari: un lavoro sicuro, buona retribuzione, stipendio fisso con aumenti periodici, carriera lineare, magari iniziata e finita nella stessa azienda. E obiettivi di vita tangibili: un appartamento di proprietà, un’auto, cena fuori, cinema o teatro almeno una volta alla settimana, vacanze. Per i più fortunati, seconde case al mare o in montagna. Oggi, in Italia, la classe media si sta liquefacendo. Impiegati, professionisti, insegnanti, hanno visto diminuire il loro potere d’acquisto: gli stipendi non crescono, il costo della vita sì. I figli guadagnano meno dei padri, anche se fanno il loro stesso mestiere. E pure i padri, all’occasione ammortizzatori sociali dei figli, guadagnano sempre meno.
Solo una sensazione? No. Il rapporto del Censis sulla nostra situazione socio economica, pubblicato a dicembre, ha fotografato un Paese «impoverito e incattivito», dove i salari dal 2000 al 2017 sono aumentati di 400 euro all’anno, contro i 5mila euro di aumento medio della Germania e i 6mila euro della Francia. La crisi della classe media non è un’opinione. Esiste. È uno dei temi più cavalcati dai populisti di tutto il mondo e l’Italia non fa eccezione. Per capirlo bastano i numeri e le testimonianze. Secondo il rapporto Ocse sul mercato del lavoro, tra il 2016 e il 2017 i salari italiani sono scesi dell’1,1 percento rispetto a una crescita media dello 0,6 percento degli altri Paesi. Un calo che viene attribuito alla stagnazione della produttività, alla disoccupazione, ancora tra le più alte d’Europa, e ai tanti lavoratori con basso reddito e contratti a termine.
DUE INSEGNANTI
Pietro Bertino, 52 anni, genovese, da 20 anni insegna italiano, storia e geografia. Ha una cattedra alla scuola media di Cornigliano, il quartiere del ponte Morandi. Guadagna 1.300 euro netti al mese e il suo stipendio è bloccato da nove anni per il mancato rinnovo del contratto di categoria. «Non mi ritengo nemmeno più classe media», commenta, «mi definirei un diversamente proletario». Lavora 18 ore alla settimana a cui, in un anno, se ne aggiungono 80 tra assemblee, consigli di classe e colloqui. «Insegno in una scuola con molti alunni stranieri e diverse situazioni complicate», racconta. «Vado ben oltre la spiegazione della mia materia, ricevo i genitori fuori dall’orario scolastico. A volte mi sembra di fare pure lo psicologo». Anche sua moglie è insegnante e ha, più o meno, lo stesso stipendio. Hanno tre figli tra i 20 e i 25 anni. «Fino a 15 anni fa con due entrate fisse non avevamo problemi a concederci qualche cena fuori tutti insieme o una vacanza. Oggi un’uscita di denaro imprevista di 200/300 euro, un guasto all’automobile o a un elettrodomestico, può diventare un problema. La scorsa estate siamo stati a trovare mio figlio che lavora all’estero, iniziamo a rientrare della spesa solo ora».
Quanto guadagnano i colleghi del professor Bertino nel resto d’Europa? Dando uno sguardo ai rapporti Ocse e Eurydice viene da dire: «Sicuramente di più». In Lussemburgo, estremo positivo, un insegnante di scuola secondaria, con 15 anni di anzianità, ha un reddito annuo di 94.299 euro lordi. In Germania 61.744, il doppio dell’Italia, in cui si ferma a 30.654 euro. Peggio di noi solo Grecia, Ungheria, Repubblica Ceca, Estonia e Lettonia, dove l’introito annuale è fermo a 7.395 euro. In un ambito importante come l’istruzione, gli stipendi bassi non sono un problema solo per chi li riceve. «Stiamo subendo una delegittimazione sociale», conclude Bertino. «Oggi pochi giovani vogliono davvero insegnare. Ormai è un ripiego per chi non riesce a fare altro. Questo si ripercuote sulla qualità del sistema scolastico. Ci perdono tutti: insegnanti e alunni».
IN UNIVERSITÀ
Non va meglio all’Università. La retribuzione mensile netta di un giovane ricercatore oscilla tra i 1.300 e i 1.700 euro netti al mese. Un coetaneo francese riceve più o meno la stessa busta paga, ma ha una carriera più veloce. Uno tedesco percepisce 2.300 euro netti al mese, uno spagnolo 2mila. Tornando in Italia, un professore associato guadagna tra i 2.200 e i 2.700 euro, un ordinario tra i 3.300 e i 4mila euro. Questi stipendi sono gli stessi da sette anni. In Paesi come la Francia il percorso per diventare ordinario è molto più rapido, in Svizzera e in Olanda uno studioso contratta il suo ingaggio direttamente con l’università, come un libero professionista, e può arrivare a guadagnare oltre 200mila euro all’anno. L’ingegner Maurizio Masi, 59 anni, è professore di Chimica al Politecnico di Milano. Parla con entusiasmo della sua carriera, ma ammette: «Oggi un collega ordinario ha uno stipendio medio di 3.000 euro, una volta era di quattro milioni di lire e permetteva uno stile di vita ben diverso. Anche io sento la differenza. Il problema, però, non è solo privato.
L’aspetto più grave di questo blocco dei compensi, e di un sistema poco meritocratico, è la perdita di attrattiva dell’Università e della ricerca italiana. Ci lasciamo scappare i nostri cervelli e non riusciamo a richiamarne dall’estero. Persino i ricercatori di Paesi molto poveri iniziano qui la carriera e poi tornano a casa, dove hanno stipendi più bassi sulla carta, ma con maggiore potere d’acquisto. Un professore in Pakistan o in Turchia vive da ricco, in Italia, in una città come Milano, fatica a far quadrare i conti».
I NOSTRI MEDICI
E i medici? Cosa succede a una professione che per anni è stata sinonimo di benessere economico nell’immaginario italiano? «In confronto alla situazione generale non ci possiamo lamentare», dice Pina Onotri, 59 anni, romana, medico di famiglia e segretario generale dello SMI, Sindacato Medici Italiani. «Oggi un medico dipendente o convenzionato con il Sistema Sanitario Nazionale guadagna tra i 70mila e gli 80mila euro lordi all’anno, ma dall’inizio del blocco dei contratti nel 2008 a oggi, ognuno ha perso in media tra i 20 e i 30mila euro a causa dei mancati scatti di carriera e degli straordinari non pagati». «A causa della stagnazione retributiva e di quella dei turnover», aggiunge, «abbiamo dai 14mila ai 20mila medici in meno. Questo si traduce in turni sempre più impegnativi a fronte di uno stipendio invariato».
Come medico di famiglia con circa 1.200 mutuati, Onotri guadagna 5.000 euro lordi al mese, ma di questi, spiega, tra affitto, tasse, segreteria e eventuali sostituzioni, gliene rimangono in tasca meno della metà. «Mentre studiavo», ricorda, «lavoravo come impiegata e mi sentivo ricchissima. Le mie possibilità economiche di 30 anni fa erano migliori di quelle di adesso, nonostante ora abbia un lavoro più qualificato. È vero, i dottori possono esercitare la libera professione, ma non è scontato riuscire ad affermarsi in quel settore e avere guadagni soddisfacenti». Quali potrebbero essere i Paesi europei più interessanti per un giovane medico? «Come sistema la Francia e l’Inghilterra, come carriera l’Olanda, dove un medico può arrivare a guadagnare anche 20mila euro lordi al mese».
Maria C., anestesista di 34 anni, ha scelto invece Monaco di Baviera, Germania. «Qui, per specializzarsi, non ci sono concorsi e graduatorie. Il lavoro si trova mandando curriculum agli ospedali», spiega. «Il mio primo stipendio, a 26 anni, era di 2.500 euro netti (un omologo italiano ne prende 1.600 ndr). Ognidue anni ci sono scatti contrattuali fissi. Oggi guadagno circa 5.100 euro al mese, ho un buon tenore di vita, anche se Monaco è una città cara. Per comprare casa mi hanno dato una mano i miei genitori. La vera differenza con l’Italia è che qui, in ambito lavorativo, è tutto più fluido e semplice». Confrontando le storie ci si accorge che in Italia non sono solo le paghe a essersi contratte, ma anche la qualità stessa del mestiere svolto, le possibilità di crescita personale e di carriera, la stabilità contrattuale. Tutti fattori che concorrono a migliorare stile di vita, prospettive e consapevolezza di sé.
IN AZIENDA
«La Svezia viene vista come un paradiso per il lavoro e il welfare», racconta Stefano Dell’Orto, ingegnere di 48 anni, oggi manager di un’importante azienda del settore energetico, a Stoccolma dal 2005, padre di due bambine. «Non è sempre così, ovviamente, gli stipendi sono più alti (quello medio è di 22mila corone, 2.100 euro ndr), ma anche il costo della vita e le tasse vanno di pari passo. Non esistono però contratti atipici. Non c’è divario tra i salari di uomini e donne. Tutte le categorie professionali possono permettersi una casa di proprietà, una macchina e una vita dignitosa. Ci sono grandi aiuti statali per chi ha figli. Esiste la meritocrazia: se sei in gamba, a 40 anni diventi manager».
Sara N., 35 anni, esperta di Marketing e Comunicazione, a Londra è diventata manager a 32 anni. «Dopo la laurea ho fatto un breve stage non retribuito, poi ho trovato un lavoro da 28.000 pound netti l’anno, circa 30.000 euro, per 12 mensilità». Non moltissimo per gli standard della capitale britannica. «È vero», conferma, «basta pensare che ai tempi pagavo una stanza in affitto 800 sterline (900 euro). Però nel giro di un paio di anni ho quasi raddoppiato il mio stipendio, cambiato due aziende, avuto un ruolo di responsabilità. Ho chiesto e ottenuto due aumenti in tre anni, fino ad arrivare a guadagnare 62mila sterline nette all’anno (70mila euro)». Sara ammette che, anche con queste entrate, non c’era grande margine per accumulare risparmi. «Avevo molte uscite fisse, ma, per scelta, non mi negavo cene, viaggi, shopping e corse in taxi».
Il rientro in Italia è stato una doccia fredda. «Sono tornata perché mio marito è stato trasferito qui», spiega. «Sapevo che avrei trovato un mercato del lavoro ben diverso da quello che avevo conosciuto in Inghilterra, ma sono rimasta stupita. In negativo». A Sara sono stati offerti posti da 20 -25mila euro netti all’anno, con contratti a termine, alcuni anche a sei mesi. «Ho pensato che, per quelle cifre, non valeva la pena sprecare la mia professionalità, costruita in tanti anni di gavetta. Io ho un marito, ma una persona sola come fa a a costruirsi un futuro con un livello tale di precariato e con stipendi così bassi? Per trovare il posto che ho oggi, a tempo indeterminato, con contratto e retribuzione da quadro, ci ho messo più di un anno».
CETO MEDIO ADDIO?
La liquefazione del ceto medio, dei suoi guadagni, del suo potere d’acquisto è uno spettacolo triste, sintomo del malessere di un Paese fermo, che non minaccia solo contratti e retribuzioni, ma anche talenti, creatività, cultura e servizi. Lo hanno sottolineato più volte anche gli intervistati di questa inchiesta: la contrazione degli stipendi è insieme una questione privata e pubblica.
Come ci siamo arrivati? «È stato un percorso lungo. Si è rotto il meccanismo che ha portato i rappresentanti delle professioni liberali, i commercianti, i piccoli imprenditori e gli artigiani a diventare classe di mezzo», analizza il sociologo Aldo Bonomi. «Prima c’era un sistema di crescita condivisa, la ricchezza si distribuiva tra i vari ceti. Oggi è nelle mani di pochi. Si è rotto l’ascensore sociale». «I flussi di capitale sono diversi», prosegue, «tutti concentrati tra finanza, internet e reti di trasporto».
Ci sarà ancora una classe media in futuro? «Difficile dirlo, sicuramente sarà diversa da quella che abbiamo conosciuto. L’idea di benessere economico non è più legata al salario fisso. Oggi se un giovane vuole diventare ricco pensa a fare una start-up. Non tutti però ci riescono. I genitori della middle class novecentesca si ritrovano con figli che ambiscono a professioni di cui ignorano l’esistenza. E, alla fine, non è detto che staranno meglio dei loro padri».