lunedì, 25 Novembre 2024

USA. ELEZIONI DI MIDTERM: LA POSTA IN GIOCO

OLIVIERO BERGAMINI / RAI (ISPI)

Tutti i deputati (435) e un terzo dei senatori (33, più due elezioni speciali) del Congresso federale, 36 governatori degli stati, più di 6500 cariche a livello statale e altre migliaia a livello locale. Le elezioni di metà mandato del 2018 sono, come sempre, un esercizio di democrazia enorme e labirintico. La posta in palio maggiore, naturalmente, è a Washington. Attualmente il Partito Repubblicano controlla sia la Camera dei Rappresentanti (235 contro 193, più 7 seggi vacanti) sia il Senato (con una risicatissima maggioranza di 51 seggi a 49, compresi 2 indipendenti).

Per conquistare almeno una delle due Camere i Democratici dovrebbero guadagnare almeno 23-24 seggi alla Camera e due al Senato. Fino a poco tempo fa i sondaggi facevano prevedere un’“onda blu” (il colore associato al Partito Democratico) che avrebbe con ogni probabilità dato la maggioranza ai Democratici almeno alla Camera, mentre strapparla al Senato sarebbe stato più arduo. Ultimamente gli entusiasmi dell’opposizione di sono raffreddati, e lo stesso Bernie Sanders ha invitato alla cautela. La tensione però resta alta. Non è un caso che Trump abbia deciso di gettarsi anima e corpo nella campagna elettorale. Da questo voto infatti dipenderà molto del successo finale della sua presidenza e dunque delle sue chances di rielezione nel 2020.

Se i Democratici dovessero conquistare la Camera, infatti, per prima cosa darebbero nuovo slancio e sostegno alle indagini sul Presidente, l’inchiesta sul Russiagate risulterebbe politicamente blindata, e si potrebbero addirittura aprire le porte di una procedura di impeachment. La Costituzione assegna infatti proprio alla Camera il potere di attivare l’iter che può condurre alla messa in stato di accusa del capo dello Stato. Si tratta in realtà di un iter complesso, che difficilmente riuscirebbe a superare l’opposizione repubblicana; la condanna finale, in ogni caso, richiederebbe una maggioranza qualificata dei due terzi in Senato e visti gli attuali rapporti di forza è da considerarsi esclusa. Ma anche solo l’avvio di questo percorso indebolirebbe fortemente Trump, innescando probabilmente una serie di scontri politico-istituzionali che diventerebbero il motivo dominante della sua presidenza.

Anche senza avviare l’impeachmentuna maggioranza democratica in un ramo del parlamento (in entrambi appare quasi impossibile), diventerebbe un’enorme zavorra per la seconda metà del mandato di Trump. Alleandosi con alcuni deputati e senatori repubblicani, i democratici sono già riusciti a fermare lo smantellamento della riforma sanitaria di Barack Obama e a imporre uno stallo nella riforma delle leggi sull’immigrazione. Se fossero in maggioranza, gran parte dell’agenda del Presidente, a partire dal famigerato muro al confine con il Messico, che richiede l’approvazione parlamentare dei fondi necessari, si arenerebbe inesorabilmente.

Al di là del numero dei seggi in senso stretto, il voto di midterm potrà anche dare indicazioni importanti sui complessivi indirizzi politici del paese. In campo repubblicano pare destinato a confermare la profonda, epocale trasformazione del Grand Old Party in senso populista-sovranista-radicale, o forse – più correttamente e semplicemente – in senso “trumpiano”. Dopo i primissimi mesi, infatti, le voci di dissenso interno al partito conservatore si sono affievolite, i due senatori “dissidenti” Bob Corker e Jeff Flake hanno deciso di non ricandidarsi, e le primarie hanno complessivamente premiato i candidati che Trump ha appoggiato e che si sono pienamente allineati a lui. Con rare eccezioni, il Partito Repubblicano che nelle sue gerarchie interne tanto aveva fatto per cercare di impedire al miliardario di New York di conquistare la nomination, è ormai pienamente diventato il partito di Trump, e il voto di midterm dovrebbe sancire questa cruciale trasformazione ideologico-politica.

Sul fronte democratico si confrontano invece due linee: quella più moderata-tradizionale, riconducibile a veterani come Nancy Pelosi, e quella più radical-progressista, incarnata da una infornata di giovani (e meno giovani) candidati che si definiscono “socialdemocratici” (termine che fino a qualche anno fa era anatema negli Stati Uniti) e guardano a Bernie Sanders come loro padre nobile. Stella nascente assoluta di questa componente è Alexandria Ocasio-Cortez, ventinovenne di origini portoricane che nel collegio del Queens a New York ha sconfitto nelle primarie un pezzo da novanta del suo partito come Joe Crowley.

Anche altri personaggi emergenti, come i candidati governatori Stacey Abrahams in Georgia o Andrew Gillum in Florida, hanno fatto parlare di uno spostamento a sinistra del partito; in realtà nelle varie primarie non pochi esponenti dell’establishment democratico hanno tenuto le loro posizioni. Saranno quindi i risultati finali a determinare se davvero una generazione più giovane e radicale sarà in grado di prendere in mano il partito che due anni fa si era affidato a Hillary Clinton e di cambiare in modo sostanziale la sua identità.

Quello che appare certo per ora è che questo voto segnerà un importante passaggio nella presenza femminile. Quasi 300 donne sono candidate al Congresso o alla carica di governatore: un numero record, che ovviamente andrà poi valutato sulla base dei risultati finali. Ma, salvo sorprese, queste elezioni dovrebbero riuscire ad attenuare in qualche misura la storica sottorappresentazione femminile nella politica americana (tra i deputati della Camera dei Rappresentanti oggi sono donne solo 84 su 435; tra i senatori 21 su 100. In entrambi i casi una percentuale di circa il 20%, mentre in Italia, ad esempio, è di circa il 30%). Tutto questo per limitarsi sostanzialmente al livello federale. In realtà anche le decine di competizioni statali – per la carica di governatore e i parlamenti degli stati – hanno grande importanza, sia per i cittadini degli stati stessi, sia per il ruolo che quelle autorità potranno avere nelle presidenziali del 2020.

Data la natura anomala, dirompente, della presidenza Trump, più che in altre occasioni questo voto di metà mandato assume dunque un valore quasi dirimente: una sconfitta dei repubblicani potrebbe fermare – o frenare significativamente – la spinta propulsiva del nazionalismo-sovranista presidenziale. Una loro vittoria potrebbe rafforzarlo e consacrarlo. Non è un caso che Trump stesso ripeta nei suoi comizi: “Questo voto in realtà è un referendum su di me. Fate conto che sulle schede ci sia scritto il mio nome”.

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