Dopo settimane di accuse e invettive, Donald Trump autorizza l’inizio della transizione. E Joe Biden presenta il suo futuro gabinetto, che con lo sblocco dei fondi ora potrà iniziare a lavorare. Oltre alla pandemia e alla crisi economica, c’è da rimettere in piedi la politica estera.
Joe Biden è il “vincitore apparente” delle elezioni presidenziali. Lo ha dichiarato Emily Murphy, capo della General Services Administration. Il team del presidente uscente Donald Trump – che però non molla sulle “truffe elettorali” – passa di malavoglia il testimone della presidenza a Biden. E con il contemporaneo sblocco dei fondi per la sua amministrazione, la transizione può finalmente iniziare. Il neoeletto presidente democratico presenta i membri del suo “dream team”: sono tutti volti noti e flashback dell’amministrazione Obama, come John Kerry e Antony Blinken. Nomi altisonanti della recente storia politica a stelle e strisce e che preannunciano l’impronta del futuro mandato di Joe Biden: lotta alla pandemia e alla conseguente crisi economica, contenimento del riscaldamento globale e una sterzata decisa in politica estera. Eppure per il Partito Repubblicano la sconfitta non è ancora definitiva: il ballottaggio di gennaio per completare il Senato potrebbe mantenere in equilibrio la politica statunitense dei prossimi anni e controbilanciare la svolta agognata dal ticket Biden-Harris.
Trump esce di scena?
“Continueremo a combattere e credo che vinceremo! Ciononostante, per il bene del nostro Paese, raccomando che Emily [Murphy] e il suo team facciano quanto va fatto in riferimento ai protocolli, e ho detto al mio team di fare lo stesso”. Con questo tweet Trump ha di fatto dato inizio alla transizione presidenziale. L’annuncio arriva l’indomani della certificazione della vittoria di Biden in Michigan e del fallito ricorso alla Corte della Pennsylvania, un altro macigno sulle accuse di brogli del presidente uscente. La decisione della General Services Administration di avviare il passaggio di consegne, che solitamente è una prassi formale, era stata sollecitata nelle scorse settimane anche da diversi repubblicani, dal momento che il ritardo accumulato mette a rischio la sicurezza nazionale, rendendo più complicato per la nuova amministrazione di entrare in carica con tutte le risorse e le informazioni necessarie per essere operativi fin dal primo giorno. La campagna dello staff di Trump contro i presunti brogli elettorali, così vigorosamente rilanciata dal suo avvocato Rudy Giuliani, si avvia dunque al capolinea. Ma i repubblicani ripongono le loro speranze nel ballottaggio del 5 gennaio per i due senatori della Georgia. Un’eventuale vittoria confermerebbe la maggioranza Rep in Senato, che poco dopo dovrà esprimersi sulla squadra del nuovo presidente eletto.
Back to the future?
Un ritorno al passato. A leggere i nomi scelti da Biden per il suo futuro gabinetto presidenziale l’impressione è che il 78enne neoeletto presidente abbia puntato sull’usato garantito. Molti di loro hanno già avuto ruoli di spicco nell’era Obama. Tra loro, John Kerry, già segretario di stato, oggi incaricato di seguire il dossier del cambiamento climatico (fu lui a firmare gli accordi di Parigi nel 2015); e Antony Blinken, che di Kerry fu il vice, e passerà di grado divenendo il nuovo segretario di Stato. La nuova ambasciatrice all’ONU sarà invece l’afroamericana Linda Thomas-Greenfield, veterana della diplomazia USA in diversi paesi dell’Africa. Avril Haines sarà direttrice del National Intelligence e anche lei rientrava tra i consiglieri di Barack Obama per la sicurezza nazionale. Se confermato, Alejandro Mayorkas diventerà il primo immigrato e latinos a capo del Dipartimento della Sicurezza Interna. Completa il quadro Jake Sullivan, nominato consigliere per la sicurezza nazionale, posizione già ricoperta quando Biden era vicepresidente.
Se da un lato, per ora, il team di Biden risulta molto inclusivo verso le diverse componenti del paese, con una rappresentanza di genere quasi perfetta se si conta anche la vicepresidenza di Kamala Harris, dall’altro non si può dire che sia un vero e proprio rinnovamento. Sono tutte figure che Biden conosce bene, avendoci lavorato insieme durante i due mandati di Obama, e di cui ha piena fiducia. Solo i prossimi mesi, in cui si attende l’agenda di politica estera, potranno dire se si tratta di un ritorno all’era Obama o un nuovo corso per la politica estera americana.
Una nuova geopolitica?
La politica estera dei prossimi anni dipenderà molto dal nuovo segretario di stato Antony Blinken. Con lui, Biden cercherà innanzitutto di “riunire la banda” degli alleati europei, nonché di rilanciare il multilateralismo. Le due cose, nella prospettiva della nuova amministrazione, devono andare insieme: l’Europa è un partner vitale per rafforzare la NATO, non cedere a interferenze della Russia, e lavorare congiuntamente sugli altri dossier internazionali. Blinken ha studiato in Francia è di origine ebrea e il suo patrigno è un sopravvissuto dell’Olocausto: anche questi elementi avrebbero contribuito a plasmare la sua coscienza europeista. Sei anni al Senato, Blinken ha assistito Biden per quasi vent’anni.
Quando era vicesegretario di stato, Blinken si contraddistinse tra gli interventisti, sollecitando sia un’azione più incisiva in Siria che supportando l’intervento armato in Libia, fronte sul quale andò contro lo stesso Biden. Dalla Siria gli USA si sono parzialmente ritirati l’anno scorso, mentre in Libia non vi sono soldati americani. Sono due dossier ancora aperti e su cui il futuro inquilino alla Casa Bianca dovrà decidere se continuare lungo il tracciato segnato dall’amministrazione Trump o avviare un nuovo corso.
Il commento
Di Mario Del Pero, ISPI Senior associate research fellow e professore a SciencesPo
Queste prime nomine di Biden vanno valutate per la loro salienza politica, e per quel che ci possono dire rispetto alle scelte della futura amministrazione, ma anche per il loro simbolismo. Biden le usa per dare un messaggio forte al paese e al mondo. Lo vediamo bene sul terreno della politica estera e di sicurezza con le nomine di Blinken a segretario di Stato, di Sullivan a Consigliere per la Sicurezza nazionale, di Mayorkas come segretario per la Homeland Security e della Thomas-Greenfield come ambasciatrice all’Onu (posizione che recupera lo status precedente e rende il titolare nuovamente membro del gabinetto presidenziale). La simbologia è chiara: è un’America cosmopolita, questa, che torna ai precetti dell’internazionalismo liberale e multilaterale; ed è un’America internazionale, nel pluralismo e nella diversità che incarna ed esprime. Se sia anche un’America in grado di rispondere alle sfide del 2020, se l’internazionalismo liberal di un Blinken sia davvero adeguato (o aggiornabile) ai tempi, costituisce però un grande interrogativo.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)