Il copione, ampiamente scontato, è stato rispettato alla lettera. La Ue ha avviato una procedura relativa all’eccessivo debito pubblico dell’Italia. Quello andato in scena, del resto, è apparso subito un dialogo fra sordi. Da un lato, il governo dei giallo-verdi, decisi a portare avanti una Manovra 2019 da loro presentata come «espansiva», costi quel che costi come Matteo Salvini esemplificò brutalmente a fine settembre.
«L’Europa dice no? Me ne frego», furono le sue parole. Dall’altra, una Unione che insiste nel riproporre acriticamente le ricette “rigoriste” di sempre. C’è tuttavia una differenza di fondo rispetto alla crisi dei debiti sovrani del 2011-12: all’epoca il problema era collegiale, oggi l’Italia è da sola sul banco degli imputati, come dimostra la ritrovata compattezza europea, anche dei Paesi a guida “nazionalista”.
È una differenza che il nostro esecutivo finge di non vedere. Forse illudendosi, e certamente provando a illudere l’opinione pubblica, che le prossime elezioni europee possano mutare gli equilibri – e quindi le politiche adottate – dentro la Ue. Ma, comunque vada, non saranno i calcoli post-elettorali a cambiare le grandi geometrie dell’Unione. Ci vuole visione politica, e ci vogliono – tra Stati – alleanze di prospettiva e non appena di interesse spicciolo.
La prima risposta del presidente del Consiglio Conte sembra tuttavia aprire a un confronto con Bruxelles, pur nella ribadita convinzione che la Manovra presentata sarebbe «solida ed efficace» e resterebbe la «strada migliore» da seguire. Al riguardo, ora che lo scontro è in atto, una cosa è bene dirla.
La procedura verso le eventuali sanzioni sarà lunga, durerà mesi, ma è inutile pensare di riempire il tempo con altre valanghe di chiacchiere. Molte parole sono già state usate dai portavoce dell’esecutivo Lega-M5s e come unico risultato hanno prodotto un dilapidare di risorse (il governatore Visco le ha quantificate in oltre 5 miliardi di maggiore spesa per interessi entro il 2019, qualora lo spread resti a questi livelli) che più proficuamente potevano essere impiegate. Le posizioni sono chiare e, ormai, si è capito che non muteranno. Quel che occorre è fare passi in avanti. Da ambedue le parti, ma soprattutto da parte italiana.
Servono iniziative ‘diplomatiche’ (al di là della cena Conte-Juncker di sabato) e aggiustamenti alla Manovra. Perché è solo trattando che si possono ottenere risultati concreti, come fecero i precedenti governi che ottennero flessibilità per circa 30 miliardi. E perché, per ricorrere allo stesso linguaggio caro al vicepremier leghista, il governo in teoria se ne può anche «fregare» di quanto sta accadendo, ma gli italiani non possono «fregarsene» se sono loro i primi «fregati» dalla cosiddetta «manovra del popolo».
Se ne sono già accorti i possessori di Btp che magari hanno dovuto vendere i loro titoli in questo periodo e chi va oggi ad aprire un mutuo a tasso variabile. Sarebbe spiacevole se si allargasse ancora la platea degli italiani ‘chiamati’ a pagare questa Manovra «espansiva». Così come sarebbe bene che, oltre a difendere le proprie ragioni nel voler usare in modo diverso dal passato i soldi pubblici per colpire povertà e disoccupazione e per sostenere la domanda aggregata in chiave anti-recessiva, il Governo Conte-Di Maio-Salvini dedicasse a tutti gli italiani un supplemento di tempo e di volontà di chiarezza.
Chi sta a Palazzo Chigi lo deve fare anche per spiegare meglio la strategia che ha in mente (sperando che ce ne sia una) e per far capire definitivamente in che cosa consistano le misure-cardine di spesa nella Manovra: quel Reddito (e annesse pensioni) di cittadinanza e quella riforma per lasciare prima il lavoro di cui finora si sa esclusivamente che esistono risorse destinate a due fondi ad hoc (9 miliardi per la prima misura e 6,7 per la ‘quota 100’). Nulla di più. Così come poco o nulla si sa del rilancio (da tutti auspicato) degli investimenti pubblici che dovrebbe integrare la Manovra, ma di cui è ignota la strategia. Quale tipo di investimenti si vuole potenziare? In quali settori? E in quali aree? Incamminarci su un sentiero pieno di potenziali rischi, brandendo l’insegna solo di due cifre a nove zeri ci pare poco avveduto.
Ma torniamo sull’isolamento in cui si trova l’Italia. Non può essere ancora ignorato: perché tutti gli Stati membri della Ue hanno ceduto parte della loro sovranità in termini economici e hanno anch’essi la loro parte di ragioni nell’esigere, ora, che il rispetto delle regole in Europa valga per tutti. E la soluzione dei problemi sta in più governo comune, non in meno, e in una guida politica dell’Unione che sia in grado di ‘dare anima’ alle regole tecniche che i Ventisette, tutti insieme, Italia compresa, si sono dati.
Nella spirale mozzafiato di questo scontro con la Ue e gli altri Stati membri ci si avvita, peraltro, in una fase di rallentamento dell’economia che era già prevista, da diversi organismi economici e da almeno 6 mesi. Il 2019 si profila come un anno molto duro. Non è il caso di evocare il chicken gamee le «corse verso il baratro», come ha fatto nei giorni scorsi il ministro dell’Economia, Tria. Tanto più che, se questa corsa c’è, il Governo italiano vi sta partecipando con entusiasmo e a fari spenti. Senza nemmeno avere il fascino di un James Dean. Si tratta, invece, di prendere sul serio il rischio (perché non abbiamo né un’Italia né un’Europa di riserva, come ha ammonito con preoccupazione il presidente della Cei, Bassetti) e di smetterla di raccontare agli italiani favole in forma di slogan. Magari suonano bene, ma non sono la marcia trionfale dell’Aida. Lo capiremo sempre meglio.