lunedì, 25 Novembre 2024

VLADIMIR PUTIN. LO ZAR CHE VUOLE CONQUISTARE L’EUROPA

GIGI RIVA (L’Espresso)

Quando di Vladimir Putin si dice “è uno zar” si commette un errore filologico, non sostanziale. Come gli imperatori di Russia fino alla rivoluzione bolscevica, il padrone del Cremlino costruisce disinvoltamente alleanze in ogni Paese, crea cavalli di Troia utili al suo disegno egemonico. Slegato come è da ogni ideologia se non quella nazionalista (lui che fu comunista e agente del Kgb), in tempi di geopolitica liquida gioca in modo spregiudicato il suo risiko cercando interlocutori anche tra leader reciprocamente nemici. Grazie al pragmatismo, coltiva l’interesse del proprio Paese, unica stella polare rimasta dopo il superamento del Novecento e della Guerra Fredda. Dialoga con gli ayatollah iraniani e vuole al suo fianco Bibi Netanyahu per la solenne parata del 9 maggio a Mosca.

A Gerusalemme può peraltro contare sul fidato Avigdor Lieberman, il capo di quel milione e mezzo di russi-israeliani che lo venerano per la sua immagine forte e per l’ intransigenza verso il fondamentalismo islamico. Con il suo attivismo, in Medio Oriente sta sostituendo l’influenza americana con la propria. Grazie a giri di valzer che sono piroette, si scontra ferocemente col turco Erdogan per poi scambiarsi amorosi sensi quando intuisce che il sultano di Ankara può lacerare il fronte della Nato: l’ossessione dell’Alleanza atlantica da allontanare dai confini è una costante della storia recente russa.

Ogni partita è la sua partita. Soprattutto se riguarda i vicini. E con sguardo presbite, mentre cuce proficui rapporti con la Cina, getta più di un occhio sull’Europa, il Vecchio Continente, dove per lui l’aggettivo non è sinonimo di portatore di sapienza antica, ma di attuale senescenza. E il suo capolavoro è la riuscita di un’impresa impossibile fino a ieri: provocare ammirazione, rispetto e condiscendenza in diversi Paesi dell’ex Patto di Varsavia, già molto rancorosi verso la Mosca che fu matrigna. A dispetto della rivoluzione antisovietica del 1956, sedata nel sangue, il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha Putin per modello, ai russi ha affidato la modernizzazione dell’unica centrale nucleare del Paese, riscalda i suoi cittadini con il gas siberiano ed è naturalmente tra i più critici delle sanzioni contro il Cremlino, causa l’annessione della Crimea. Pure Praga conobbe il bastone dei carrarmati sovietici nel 1968 e la sua fugace primavera fu repressa, tuttavia i cechi hanno eletto a capo dello Stato per la seconda volta a inizio 2018 l’antieuropeista, xenofobo e filorusso Milos Zeman. Slovacchia, Bulgaria e Slovenia sono stabilmente nel fronte anti-sanzioni. Dove brilla l’assenza della pur profondamente populista Polonia: troppo radicate le paure nei confronti dell’orso russo.

Non gli basta il consenso degli ex vassalli, peraltro sanguinosa spina nel fianco di Bruxelles. Putin vuole di più, vuole l’occidente dell’Europa. Di cui ha individuato il tallone d’Achille nella crisi dei migranti. Dalla fine del 2014 ha avviato una potente offensiva mediatica per illustrare al mondo la posizione russa. La sua “fonte unica di notizie alternative” che racconta “ciò che gli altri non dicono” è la galassia di “sputnik”, erede della storica “Voce della Russia”, agenzia, sito web e radiobroadcast che si declina in trenta lingue, 800 ore di trasmissioni radiofoniche giornaliere e redazioni al lavoro “h24” per sette giorni la settimana. Il tutto controllato dall’agenzia “Rossiya Segodnya” fondata nel 2013 per volere dello zar.

Se questa è informazione di parte e col Cremlino come proprietario, un motivo di preoccupazione maggiore è provocato dalle fake news (ma perché non chiamarle nella nostra lingua “notizie false”?) che hanno origini russe. L’Unione europea ha costituito, negli ultimi due anni, una task force per individuarle, è arrivata a censirne migliaia di cui alcune particolarmente significative per destabilizzare Paesi e influenzare il voto. A Bruxelles è considerato un caso di scuola quello di una ragazza russa di 13 anni, poco più che bambina, Lisa F., che sarebbe stata stuprata da tre extracomunitari in Germania. Un episodio del gennaio 2016 almeno dubbio, ma che ha alimentato una forte campagna contro la politica di Angela Merkel a favore dei migranti, e ha ingrossato il consenso del partito antisistema, euroscettico e di estrema destra Alternative für Deutschland.

Le relazioni pericolose tra la francese Marine le Pen e Vladimir Putin sono suffragate da strette di mano, photo opportunity, dichiarazioni di “piena convergenza su tutti i fronti”, e fondi generosamente elargiti al Front National, giustificati da Marine dopo i dinieghi di finanziamenti ricevuti dalle banche di casa sua. Emmanuel Macron però vinse la corsa all’Eliseo e tuttavia si lamentò dell’ingerenza di Mosca, cosa che peraltro fecero anche gli inglesi in occasione del voto sulla Brexit. Ipotesi. Mentre è un dato che l’80 per cento dei tweet a favore dell’indipendenza catalana prima del referendum sono arrivati da account russi e venezuelani.

Stati del patto di Visegrad, partiti xenofobi, euroscettici e sovranisti. Tutti filorussi. E tutti vicini alla nostra Lega (fino a quando i vari sovranismi entreranno in collisione d’interessi). È in questo mare che nuota Matteo Salvini, è in questo quadro che il premier sotto tutela Giuseppe Conte chiede a sua volta la revoca delle sanzioni salvo poi rimangiarsela per l’arrabbiatura europea. L’infatuazione di Salvini per Putin risale, al minimo, alla sua intronazione a segretario della Lega nel congresso di Torino, dicembre 2013, presente il parlamentare russo Viktor Zubarev. Dovrà aspettare quasi un anno per l’incontro ravvicinato, Milano 17 ottobre 2014, quando si esprimerà come un ultrà degli stadi al cospetto del suo idolo: “Certo, bere un caffè con Putin…”. Sull’asse Milano-Mosca si snoda una ragnatela di contatti fino ai sospetti, mai provati per la verità, di donazioni russe alle casse esangui della Lega. Fino, soprattutto, a un inusuale accordo di cooperazione e collaborazione siglato a Mosca nel marzo del 2017 da Salvini e da Sergei Zheleznyak, vicesegretario del Consiglio per le relazioni internazionali di Russia Unita, il partito di Putin.

Il testo, in dieci punti, prevede che le due formazioni “si consulteranno e si scambieranno informazioni sui temi di attualità, sulle relazioni internazionali, sullo scambio di esperienze nella sfera delle politiche per i giovani, dello sviluppo economico”. E ancora, nel passaggio più sensibile, c’è l’ impegno a promuovere le relazioni con viaggi, seminari, convegni, sulla base di un “partenariato paritario e confidenziale”. Dettaglio che ha messo in allarme Armin Schuster, presidente Cdu della commissione servizi del Bundestag tedesco, il quale ha sottolineato come d’ora in poi, col governo giallo-verde in Italia, i contatti tra le intelligence potrebbero essere condotti “diversamente” quando di mezzo ci sono questioni che coinvolgono Mosca.

Forse Vladimir Putin non vuole, come ama ripetere, la fine dell’Europa. Forse la vuole semplicemente debole e divisa. Un progetto che lo accomuna a Donald Trump, in questo il suo partner più prezioso. A differenza dell’ondivago, protezionista, e neo-isolazionista presidente Usa in testa ha una strategia precisa e la persegue con ostinazione. Fidando sui tempi lunghi che gli concede il vasto orizzonte temporale nell’esercizio del potere. Ha preso atto della liquefazione degli assetti geopolitici consolidati in un mondo in camminio dove cambiano i punti di riferimento. Può snobbare il G7 che lo esclude a favore di un G20 che più rispecchia gli equilibri e le forze multilaterali. A dispetto del nano economico che guida (il Pil russo è appena il 5 per cento di quello Usa o Ue), è tornato gigante politico, si è abilmente inserito nel duopolio Usa-Cina che avrebbe dovuto segnare il Ventunesimo secolo. Adesso anche la vetrina planetaria dei Mondiali di calcio. Come già per le Olimpiadi di Sochi del 2014, è lì per dire urbi et orbi: con me dovete fare i conti.

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